Yuddhiṣṭhira e Duryodhana: i due re

Fra i personaggi principali del Mahābhārata spiccano per la loro importanza, anche in termini di apparizioni, costanti e frequenti dall’inizio alla fine dell’opera, Yuddhiṣṭhira e Duryodhana, che sono i due possibili eredi al trono.
Yuddhiṣṭhira è infatti il primogenito dei cinque figli di Paṇḍu mentre Duryodhana è il primo dei 100 figli di Dhr̥tarāṣṭra (fratello di Paṇḍu), che è il re ufficiale del regno, ma essendo anziano e cieco dalla nascita non può veramente esercitare la funzione di re. D’altra parte Paṇḍu, fratello minore di Dhr̥tarāṣṭra, è morto a causa di una maledizione: la situazione dinastica in cui si trovano i Bhārata è quindi effettivamente problematica, perché per certi versi dovrebbe essere Duryodhana l’erede in quanto primo figlio maschio del re in carica, d’altra parte però in quanto cieco Dhr̥tarāṣṭra non ha mai esercitato in pieno la sua funzione regale, mentre Paṇḍu, prima di morire, era stato re e aveva regnato nel migliore dei modi, quindi in effetti l’ultimo “vero” re è stato Paṇḍu, di cui Yuddhiṣṭhira è il primo figlio.
Duryodhana è il più “cattivo” e Yuddhiṣṭhira il più “buono”: è Duryodhana che fin da ragazzino sviluppa un odio per i cugini (perché i cinque Pāṇḍava sono cresciuti, dopo la morte del padre Paṇḍu, alla corte dello zio Dhr̥tarāṣṭra insieme ai suoi 100 figli), i quali però in effetti si prendono molto gioco dei Kaurava (così si è soliti riferirsi ai 100 figli di Dhr̥tarāṣṭra) e soprattutto il Pāṇḍava Bhīma, il secondogenito, che è dotato di una forza straordinaria, li strapazza e li umilia in più di un’occasione.
Sta di fatto che Duryodhana, quando sono ancora tutti dei giovinetti, tenta in varie occasioni di uccidere Bhīma (una volta cercando di affogarlo, una volta con dei serpenti, una volta cercando di avvelenarlo) senza però mai riuscirci, come anche fallimentare sarà il suo tentativo di bruciare i cinque Pāṇḍava e la madre Kuntī in una casa fatta di lacca e altri materiali infiammabili: nel rogo notturno della casa perirà invece una famiglia di poveretti che avevano trovato ospitalità dai Pāṇḍava (che erano al corrente dell’imminente incendio, quindi erano anche consci che quella famiglia di disperati sarebbe morta al posto loro nel rogo della casa, mentre loro sarebbero fuggiti pochi minuti prima).
Yuddhiṣṭhira è figlio del dio della giustizia Dharma (tutti i Pāṇḍava sono in realtà figli di dei, cosa che a ben vedere li rende meno adatti a ereditare il trono, in quanto di fatto privi di sangue Bhārata) ed è quindi sempre molto scrupoloso nel cercare di fare la cosa giusta e onorevole. Che però non è sempre la più saggia o la più prudente: è infatti Yuddhiṣṭhira, per esempio, a farsi trascinare nella fatidica partita di dadi, organizzata ovviamente da Duryodhana, dove perde tutto, fratelli e moglie compresi, una prima volta, poi, liberato grazie all’intervento della moglie Draupadī, di nuovo torna a giocare e perde di nuovo, e questa volta la puntata era che se avesse perso avrebbe dovuto, insieme ai fratelli e alla moglie Draupadī, risiedere 12 anni in una foresta facendo vita da asceta, più un tredicesimo in incognito in una località affollata (e, se riconosciuti, nuovamente stare 12 anni in esilio nella foresta).
E alla fine della guerra, quando dell’esercito nemico è sopravvissuto solo Duryodhana e pochi altri, quindi la guerra è ormai vinta dai Pāṇḍava e dai loro alleati, propone a Duryodhana di sfidare uno solo dei 5 fratelli, a sua scelta, e gli dice che se avesse vinto sarebbe diventato lui re: un’imprudenza assurda la sua (e Kr̥ṣṇa lo redarguirà per questo) dato che Duryodhana aveva tutti i numeri per vincere lui il duello e infatti Bhīma, scelto come avversario da Duryodhana, deve ricorrere a un colpo proibito per vincere.
E’ però Yuddhiṣṭhira, grazie al suo senso della giustizia, a convincere ripetutamente i fratelli a rispettare i patti, soprattutto Bhīma e Draupadī che più volte esortano a non rispettare il periodo di esilio e ad attaccare subito, dato che appariva evidente che Duryodhana, alla fine del periodo pattuito, non avrebbe restituito, come avrebbe dovuto, la parte di regno che spettava ai Pāṇḍava.
Di lodevole Duryodhana ha certamente la perseveranza e la capacità di riacquistare fiducia nella vittoria, dopo un momento di crisi suo (come quando decide di digiunare fino alla morte per l’umiliazione di essere stato salvato proprio dai Pāṇḍava) o dopo l’uccisione di ognuno dei suoi generali: basta una promessa di vittoria fatta dal nuovo generale di turno perché Duryodhana si getti nuovamente, anima e corpo, nella battaglia, convinto di vincere e diventare re incontrastato.
Sul piano militare, Duryodhana partecipa più da protagonista alle battaglie, mentre Yuddhiṣṭhira è spesso nelle retrovie, protetto dai suoi, perché in quanto re deve essere preservato in massimo grado (ciò non gli impedisce di fare qualche sortita anche parecchio valorosa, ma Duryodhana ne fa molte di più): entrambi del resto sono re indiscussi della loro fazione.
Durante la guerra, molto famoso è l’episodio in cui Yuddhiṣṭhira dice a Droṇa, in quel momento capo dell’esercito di Duryodhana, che suo figlio è morto, perché è l’unico modo per fermare Droṇa: se avesse creduto che suo figlio era stato ucciso, Droṇa avrebbe smesso di combattere.
Il piano, palesemente contrario al dharma, cioè alla correttezza, era stato suggerito da Kr̥ṣṇa ai Pāṇḍava per il fatto che Droṇa era imbattibile in combattimento. Bhīma immediatamente uccide un elefante che aveva lo stesso nome del figlio di Droṇa, Aśvatthāman, raggiunge Droṇa e gli dice: “Aśvatthāman è morto!”. Droṇa si turba ma pensa che potrebbe non essere vero e continua a combattere furiosamente. Kr̥ṣṇa allora insiste con Yuddhiṣṭhira e gli dice: “Devi dirglielo tu: di Bhīma non si fida, ma se glielo dici tu, che sei il figlio di Dharma, ci crederà senz’altro”. Yuddhiṣṭhira ovviamente cerca di sottrarsi a questo atto palesemente contro il dharma, ma capendo che in effetti è l’unico modo per far credere a Droṇa che suo figlio Aśvatthāman sia morto, alla fine va da Droṇa e glielo dice, aggiungendo a voce bassa “Aśvatthāman l’elefante”, espediente che non impedisce al suo carro, che fino ad allora si muoveva sospeso a mezz’aria, di piombare improvvisamente sulla terra e muoversi, da quel momento in avanti, come tutti gli altri carri.
Se Duryodhana esce di scena alla fine della guerra (salvo ricomparire alla fine dell’opera, in paradiso insieme a tutti gli altri combattenti caduti in battaglia), Yuddhiṣṭhira è uno dei protagonisti principali della seconda parte dell’opera (in particolare dal capitolo XI), in quanto appunto re ormai ufficiale. Ma proprio il suo senso della giustizia lo mette totalmente in crisi: come può voler essere re dopo aver causato la morte di così tante persone? Come può guardare in faccia il vecchio re cieco Dhr̥tarāṣṭra e la regina Gandharī dopo che ha causato la morte di tutti i loro 100 figli?
Inoltre resta sconvolto dallo scoprire che Karṇa era in realtà suo fratello (in quanto figlio di Kuntī e del dio del sole) e per giunta maggiore: il risultato è che non vuole più essere re, ma vuole ritirarsi nella foresta e dedicarsi all’ascesi per purificarsi da tutto il male commesso a causa della guerra fratricida.
Ci vogliono ripetuti interventi dei fratelli, di Draupadī, di Vyāsa e di altri ṛṣi per convincere ogni volta Yuddhiṣṭhira che in quanto re non può ritirarsi nella foresta, che quello è l’ideale dei brāhmaṇa mentre i re devono governare, devono proteggere i più deboli e garantire prosperità al regno: per convincersi Yuddhiṣṭhira interrogherà Bhīṣma su ogni aspetto del dharma (i capitoli XII e XIII sono interamente occupati dal dialogo fra Yuddhiṣṭhira e Bhīṣma) ma resterà comunque ancora turbato, fino poi a superare ogni dubbio e celebrare, nel capitolo XIV, il sacrificio del cavallo che lo legittima come re assoluto.
Anche nell’ultimo capitolo, il XVIII, quello che narra l’ascesa in paradiso dei cinque fratelli e della moglie Draupadī, Yuddhiṣṭhira è protagonista. Solo lui infatti arriva vivo in paradiso, mentre tutti i fratelli e la moglie muoiono durante l’ascesa. Ma le prove per Yuddhiṣṭhira non sono ancora finite.
All’ingresso del paradiso c’è il famoso episodio del cane: sulla porta del paradiso si mostra Indra e gli dice che, essendo il paradiso, il cane non può entrare e quindi lo deve abbandonare. Yuddhiṣṭhira si rifiuta categoricamente di farlo, perché il suo senso della giustizia gli impedisce di abbandonare un animale che l’ha fedelmente seguito per tutta la strada fatta per arrivare fin lì. Allora il cane si trasforma nel dio Dharma, il padre di Yuddhiṣṭhira e gli dice che si è conquistato grazie alla sua giustizia il paradiso.
Dopo aver avuto conferma da Indra che i fratelli e la moglie avevano già raggiunto il paradiso, Yuddhiṣṭhira si fa guidare in paradiso, dove vede Duryodhana e i suoi felicemente riuniti, ma non vede i fratelli e la moglie. Chiede allora a Indra di raggiungere i fratelli e la moglie, ovunque essi siano. Viene quindi guidato in un luogo infernale dove fra odori ripugnanti e lamenti strazianti sente le voci dei suoi fratelli che gli chiedono di restare lì, dato che la sua presenza allevia in parte le loro sofferenze. Yuddhiṣṭhira resta sconvolto (dato che ha visto Duryodhana in paradiso!) e dice all’emissario degli dei che l’ha accompagnato fin lì che può anche tornare indietro ma lui da lì non si muoverà: appena l’emissario scompare compaiono gli dei che gli dicono che era l’ultima prova che doveva passare, che era tutta un’illusione e che i suoi fratelli sono in paradiso, dove anche lui è in procinto di andare.
Proprio nelle ultime pagine dell’opera veniamo informati che dopo il soggiorno in paradiso, esauriti i suoi meriti, Yuddhiṣṭhira entrerà nel dio della giustizia, Dharma, suo padre (quanto a Duryodhana, dopo il soggiorno in paradiso, ridiventerà un Rākṣasa, un demone).

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