Personaggi del Mahābhārata: Vyāsa e Satyavatī

E’ molto difficile trovare una definizione adeguata del Mahābhārata, e del resto esso costituisce, in particolare per la sua sconfinata vastità (circa 100000 versi), un unicum nella letteratura mondiale: un po’ poema epico, dato che vi si narrano le gesta eroiche di grandi guerrieri,
un po’ testo religioso, dato che vi si celebra la grandezza del dio Kṛṣṇa (che è anche uno dei personaggi principali), un po’ testo filosofico, dato che in moltissime occasioni vi si esprimono specifiche concezioni della vita, del bene e del male (la famosa Bhagavadgītā è solo uno dei numerosi passi filosoficamente rilevanti del Mahābhārata), lo si può anche però considerare come un grandioso romanzo, dove prende corpo una ricca galleria di personaggi, dotati di connotati piuttosto precisi e coerenti.
Ed è così che, al di là dell’intrico delle innumerevoli storie secondarie, e attraverso i tanti episodi salienti di questa sconfinata epopea (che narra della devastante guerra fra due ali di cugini per l’eredità al trono, abbracciando, in tutto, cinque generazioni di eroi della stessa famiglia), emergono personaggi memorabili, alcuni dei quali proverò a tratteggiare in questo e in futuri post, senza in alcun modo ambire ad essere esaustivo, ma con la speranza di poter essere di stimolo a chi voglia leggere il Mahābhārata nel suo complesso (se ne trovano belle traduzioni, parziali ovviamente, in francese, “Le Mahābhārata Extraits traduits du sanscrit par Jean-Michel Péterfalvi, Introduction et commentaires par Madeleine Biardeau”, GF Flammarion, in due volumi; e in inglese “The Mahābhārata, Abridged and Translated by John Smith”, Penguin Classics).
Difficile non cominciare da Kṛṣṇa Dvaipāyana Vyāsa (o più semplicemente Vyāsa) che, cosa per noi abbastanza sorprendente, del Mahābhārata è sia l’autore che un importantissimo personaggio: figlio dell’unione fra una giovanissima Satyavatī (non ancora sposata) e il potentissimo ṛṣi Parāśara (ṛṣi è un termine intraducibile, con cui si indicano personaggi di sommo livello spirituale, cui si deve la rivelazione agli uomini, in generale del sacrificio vedico, e in particolare degli inni del Ṛgveda), Vyāsa (anch’egli un ṛṣi) vive per l’ascesi: partorito già perfettamente sviluppato nel momento stesso del concepimento, si avvicina alla madre (Satyavatī appunto) e le comunica di essere nato per il tapas, cioè per l’ascesi: tapasy eva mano dadhe “Io ho fissato la mia mente solo sul tapas”, dove il perfetto dadhe esprime un’azione irrevocabile; “però — aggiunge — quando sarai in difficoltà, pensami e io mi mostrerò” smr̥to ’haṁ darśayiṣyāmi kr̥tyeṣv iti.
Nell’atto stesso di nascere egli è vīryavān, pieno di forze: viene lasciato su un’isolotto (e per questo è detto Dvaipāyana da dvīpa, isola) della Yamunā, fiume sacro dell’India (il più sacro, insieme al Gange), dove sprofonda nelle sue pratiche ascetiche, che comportano la sospensione e il superamento di tutte le necessità biologiche: ce lo possiamo immaginare immobile e solitario in mezzo alla natura, sotto i ragggi ardenti del sole o sferzato dal vento o bagnato da piogge battenti, scuro di pelle (Kṛṣṇa significa “scuro, nero”), con i capelli arruffati, l’aspetto terrificante per la prolungata ascesi, lo sguardo di fuoco.
Per quanto riguarda il suo nome principale, Vyāsa, che significa “il compilatore”, esso deriva dal fatto che gli è attribuita l’opera di compilazione dei Veda, a beneficio sia del brahman, cioè del principio divino da cui origina tutto l’universo, che dei brāhmaṇa, cioè dei sacerdoti: infatti Vyāsa è cosciente, grazie ai suoi poteri acquisiti con l’ascesi, che sta per iniziare il cosiddetto Kaliyuga, ultimo di quattro eoni cosmici, il cui inizio coincide con la morte del dio Kṛṣṇa narrata verso la fine del Mahābhārata, e che si concluderà con la dissoluzione dell’universo, preludio a una nuova creazione. E nel Kaliyuga, eone in cui siamo tuttora, il Dharma, cioè la giustizia divina, entra in massima crisi, fino a perdersi del tutto: per questo è di vitale importanza che i Veda (che sono quattro e, come detto, sono emanazione dei ṛṣi) non si perdano e offrano agli uomini, attraverso l’opera esegetica dei brāhmaṇa, la fonte più importante per mantenere vivo, finché possibile, il Dharma (la dissoluzione finale del cosmo coinciderà con la scomparsa definitiva del Dharma).
Evidentemente, identificare l’autore del Mahābhārata col compilatore dei Veda, conferisce al Mahābhārata lustro e statuto di testo “quasi-sacro”, e del resto esso viene chiamato, nel Mahābhārata stesso e in altre fonti, “quinto Veda”, con la caratteristica di essere destinato a tutti gli elementi della società, laddove lo studio dei Veda era riservato esclusivamente a soggetti maschi appartenenti alle tre classi superiori: anche il Mahābhārata è quindi una fonte del Dharma (e per questo è detto quinto Veda), ed è una fonte importantissima proprio perché fruibile da tutti (incluse le donne).
In verità, il Mahābhārata nella sua forma scritta non risale direttamente a Vyāsa, che sarebbe l’autore (secondo quello che troviamo detto nel Mahābhārata stesso) di una versione più breve della storia, che, dopo essere stata raccontata da Vyāsa a suo figlio e a una ristretta cerchia di discepoli (quattro in tutto), fu resa pubblica, con ampliamenti, proprio dal figlio e da questi quattro discepoli, e fu infine — e sarebbe quest’ultima la versione che noi leggiamo nel Mahābhārata vero e proprio — narrata, in un consesso di brāhmaṇa radunatisi per celebrare un rituale di 12 anni, da Ugraśravas (un sūta, cioè un appartenente ad una casta mista, quindi inferiore, dedita in particolare a guidare i carri da guerra), il quale a sua volta l’aveva sentita, pochi giorni prima, da Vaiśampāyana (uno dei discepoli di Vyāsa che per primi divulgarono la storia del Mahābhārata), mentre la narrava a Janamejaya, ultimo discendente dei Bhārata (in particolare pronipote di Arjuna, uno dei cinque cugini “buoni” protagonisti dell’epopea), in occasione di un sacrificio di serpenti organizzato dallo stesso Janamejaya per vendicare la morte di suo padre, Parikṣīt, ucciso da un serpente.
La menzione dell’esistenza di varie versioni che precedono l’opera per come noi la leggiamo, versioni che non contestano, anzi confermano, la paternità di Vyāsa, ma la limitano ad un nucleo originario della storia, è un modo interessante e originale di portare alla luce, nel testo stesso, una lunga genesi dell’opera che, come del resto la nostra epopea, deve aver attraversato un periodo di diffusione orale, ad opera di bardi e cantori, prima di ricevere una forma scritta, forma scritta che, vista la vastità immensa dell’opera, a sua volta deve essere stata il prodotto di successivi rimaneggiamenti.
Prima di riprendere la descrizione della figura di Vyāsa, voglio raccontare la storia della nascita di sua madre, Satyavatī, in quanto tipica del Mahābhārata, dove le nascite sono, molto spesso, a dir poco sorprendenti.
Il padre “biologico” di Satyavatī è il re Uparicara (che viene detto essere, senza ulteriori approfondimenti, un discendente di Puru, antico re della stessa dinastia dei Bhārata), che un giorno, pronto ad accoppiarsi con la sua bellissima moglie, viene però mandato a caccia dai suoi avi, che gli appaiono in una visione e gli ordinano di procurarsi della selvaggina da sacrificare in loro onore. Riluttante e pieno di desiderio per la moglie, il re, che è molto pio, esegue, abbandonando a malincuore la moglie, l’ordine dei suoi avi e si dirige nel folto della foresta per cacciare. All’improvviso però viene sopraffatto dal desiderio e lascia fuoriuscire del liquido seminale. Desideroso di non sprecare il suo prezioso seme, incarica un falco di portarlo alla regina, proprio in quei giorni fertile e pronta a dargli un figlio maschio. Mentre il falco si dirige in tutta fretta verso la residenza della regina, un altro falco lo nota e, credendo che stia trasportando un pezzo di carne, lo attacca: ne segue una concitata lotta fra i due, durante la quale il seme del re cade nella sottostante Yamunā (il fiume sacro di cui sopra, dove poi nascerà Vyāsa), e, notato da una ninfa celeste (una apsaras) che si era, per una maledizione, incarnata in un pesce, viene da questa inghiottito. Dopo nove mesi il pesce-ninfa celeste partorisce due gemelli (appena partorisce la ninfa si libera dalla sua maledizione e torna in paradiso), un maschio e una femmina, che vengono mostrati al re come fatto straordinario verificatosi nel suo regno. Il re, sbalordito della cosa, adotta il maschio, e lo nomina capo dell’esercito, e dà la femmina in adozione al re dei pescatori: essa è Satyavatī che, dotata di qualità straordinarie, cresce fra i pescatori obbedendo al padre.
Appena giovinetta le viene affidato il compito di guidare una piccola imbarcazione con la quale traghetta i viaggiatori da una sponda all’altra della Yamunā. Un giorno sale sulla barca il potentissimo ṛṣi Parāśara che stava compiendo un giro dei luoghi sacri dell’India. Vedendo la bellezza di Satyavatī vuole possederla e le esplicita il suo desiderio. Satyavatī però non vuole perdere la verginità e con essa il suo buon nome, e inoltre fa notare al ṛṣi la presenza di molti testimoni oculari sulle due sponde del fiume: ma il potente ṛṣi promette a Satyavatī di restituirle la verginità subito dopo essersi con lei accoppiata, e ricopre di una spessa coltre di nebbia l’imbarcazione, sottraendola in tal modo a sguardi indiscreti. Satyavatī a questo punto, prima di concedersi, chiede al ṛṣi un’ultima grazia: perdere l’odore di pesce con cui era nata. Avendo ottenuto, al posto della puzza di pesce, un profumo inebriante (per il quale sarà anche nota come Gandhavatī, “la profumata”) si accoppia col ṛṣi e dà alla luce, come già raccontato, Vyāsa.
Eccoci di nuovo a Vyāsa.
Dalle profondissime ascesi in cui, fin dalla nascita, sprofonda, Vyāsa è sempre pronto a riemergere, ogni volta che la storia necessita di un suo apporto. Interagisce allora con gli altri personaggi in un medesimo spazio narrativo, mantenendo però la posizione privilegiata di autore, che ha ben chiaro, mentre la storia si svolge, come essa deve andare avanti: dispensa quindi a vari personaggi poteri magici, dà consigli sul da farsi, consola e incoraggia chi si trova in estrema difficoltà e, spesso, interviene nella storia in maniera determinante.
E’ lui (siamo all’inizio dell’opera) il padre naturale del grande re cieco Dhr̥tarāṣṭra (i cui figli sono i 100 Kaurava, “i cattivi” della storia); del forte Paṇḍu, che scomparirà prematuramente vittima di una maledizione (i cui figli nominali sono i cinque Pāṇḍava — in verità figli di 5 diverse divinità– i “buoni” della storia); e di Vidura, uomo di grandissima saggezza (è un’incarnazione parziale del dio della giustizia Dharma) che sopravvivrà fin quasi alla fine dell’opera ma che, nonostante la saggezza, non può essere l’erede al trono, perché avuto da Vyāsa con una schiava (la quale per altro, subito dopo essersi unita a Vyāsa, sarà dichiarata donna libera; ma di lei non conosciamo neanche il nome).
Senza questo intervento diretto di Vyāsa, la stirpe dei Bhārata si sarebbe estinta, e tutta la storia non sarebbe neanche potuta cominciare: è infatti al cruciale scopo di fornire un’erede alla famiglia dei Bhārata che Satyavatī chiama Vyāsa, evocandolo mentalmente come lui stesso aveva suggerito di fare se si fosse trovata in difficoltà. Apparso Vyāsa, Satyavatī gli chiede di mettere incinta le principesse Ambikā e Ambalikā, mogli dei due figli (chiamati Aṅgada e Vicitravīrya) che la stessa Satyavatī aveva avuto dal re Śaṃtanu, e che erano morti prima di fornire un erede alla stirpe.
Oltre a essere il padre naturale di Dhr̥tarāṣṭra, Paṇḍu e Vidura (avuti rispettivamente da Ambikā, Ambalikā e una serva di Ambikā), Vyāsa ha un ruolo determinante anche nella nascita dei 100 Kaurava (Duryodhana, Duḥśāna, gli altri 98 fratelli — di cui sappiamo ben poco, se non che vengono tutti uccisi durante la guerra — e una sorella, Duḥśalā), che come detto sono i cugini “cattivi” dei Pāṇḍava. E’ lui infatti che concede alla regina Gandharī, moglie del re cieco Dhr̥tarāṣṭra, la grazia di avere 100 figli (di forza pari a quella del marito che, pur essendo cieco, è dotato di una forza fisica insuperabile) come ricompensa per avergli dato accoglienza e ristoro una volta che le si era presentato affamato e affaticato in conseguenza di uno dei suoi periodi di ascesi. Dopo il concepimento (che puntualmente avviene in virtù della grazia concessale da Vyāsa), Gandharī rimane in stato interessante per due anni senza però partorire. Esasperata per l’inconcludente gravidanza, schiacciandosi furiosamente la pancia (oltre alla frustrazione per la sua gravidanza lunga e infruttuosa, si era aggiunta la notizia che sua cognata Kuntī invece, la moglie di Paṇḍu, aveva dato alla luce il primo dei Pāṇḍava, Yuddhiṣṭhira, figlio del dio della giustizia Dharma), Gandharī partorisce un informe bolo di carne.
Prima che Gandharī porti a termine il suo tentativo di aborto, appare Vyāsa che, confermando la veridicità della promessa che le aveva fatto di ottenere 100 figli (perché la sue parole sempre furono e sempre saranno veritiere), le dice di preparare cento vasetti pieni di burro chiarificato e poi di spruzzare dell’acqua sul bolo di carne. A contatto con l’acqua, la massa di carne si divide in 100 embrioni della grandezza della nocca di un pollice, embrioni che Vyāsa stesso ripone nei vasetti, che subito mette in posti ben protetti. Dopodiché dice a Gandharī di aspettare due anni e poi rompere i vasetti (in qualche modo, che il testo non precisa, nasceranno, dai 100 vasetti, 100 figli e una figlia), e, compiuta la sua missione di “patrigno” dei Kaurava, abbandona la scena e si reca sull’Himalaya per dedicarsi alle sue abituali pratiche ascetiche.
Molte altre volte, fino alla fine dell’opera, Vyāsa interviene: è lui che dice a Vaiśampāyana di recitare il Mahābhārata al sacrificio dei serpenti di Janamejaya, ed è lui che suggerisce a sua madre Satyavatī e alle principesse Ambikā e Ambalikā di ritirarsi nella foresta (dove tutte e tre nel giro di poco tempo moriranno estenuate dalle pratiche ascetiche) dopo che i rituali funebri per il re Paṇḍu sono terminati, annunciando che si sta preparando un periodo funesto (la guerra che scoppierà fra cugini e che porterà alla morte di tutti i guerrieri, eccezion fatta per i 5 Pāṇḍava). E’ interessante notare come, in questo modo, Vyāsa si premura di risparmiare alle tre donne tutto il dolore che l’imminente guerra causerà.
Diverse volte Vyāsa suggerisce ai Pāṇḍava, in difficoltà, il da farsi: è lui per esempio che dice loro di recarsi allo svayaṃvara (cioè alla cerimonia dove una principessa sceglie il proprio marito dopo aver radunato tutti i principi della zona) di Draupadī, che diventerà la moglie di tutti e 5 i fratelli, non senza che prima lo stesso Vyāsa convinca Draupada, il padre di Draupadī, che la cosa è lecita; è presente all’incoronazione di Yuddhiṣṭhira, il maggiore dei Pāṇḍava; rivela la vera natura, e la potenza, di Arjuna e Kṛṣṇa (che sono l’incarnazione di Nāra e Nārāyaṇa, somme divinità); visita e consola i Pāṇḍava alla fine del loro periodo di esilio, rassicurando Yuddhiṣṭhira sul fatto che otterrà nuovamente il regno, e in svariate altre occasioni consiglia e incoraggia Yuddhiṣṭhira nei suoi ripetuti momenti di abbattimento.
Al di là dei Pāṇḍava, Vyāsa interagisce con svariati altri personaggi: oltre, come si è già detto, a promettere alla regina Gandharī la nascita di 100 figli forti come il marito Dhr̥tarāṣṭra e a intervenire direttamente per aiutarla a farli nascere, la convince a superare la sua ira contro Yuddhiṣṭhira e a non scagliargli contro una maledizione, quando questo la va a trovare dopo la fine della guerra, guerra durante la quale tutti i suoi 100 figli sono stati uccisi.
In diverse occasioni Vyāsa incontra il vecchio e cieco re Dhr̥tarāṣṭra per consolarlo, assicurandogli che la guerra fra i suoi figli e i suoi nipoti era destinata a compiersi e che nulla avrebbe potuto impedirlo. E’ in una di queste visite che gli offre il dono di una vista magica, per seguire da vicino tutta la battaglia, e siccome Dhr̥tarāṣṭra declina l’offerta non sentendosela di vedere i suoi figli e i suoi nipoti massacrarsi a vicenda, Vyāsa dona la facoltà di muoversi liberamente sul campo di battaglia e di vedere tutto, persino i pensieri di ogni combattente, a Sañjaya, che di Dhr̥tarāṣṭra è un fedele aiutante e che racconterà a quest’ultimo tutti gli avvenimenti della guerra (in pratica è Sañjaya che, grazie a questo dono di Vyāsa, descrive tutte le scene di guerra presenti nel Mahābhārata, incluso il dialogo che occorre fra Arjuna e Kṛṣṇa poco prima dell’inizio degli scontri e che forma la famosa Bhagavadgītā).
Diverse altre volte Vyāsa interviene nella storia, ma dato che questo post è già troppo lungo, mi limiterò a citarne ancora una.
Verso la fine dell’opera, i cinque fratelli Pāṇḍava, gli unici guerrieri sopravvissuti alla carneficina della grande guerra, decidono di recarsi in visita nella foresta dove il vecchio e cieco re Dhr̥tarāṣṭra si era ritirato per dedicarsi all’ascesi insieme a Gandharī, Kuntī (la madre dei Pāṇḍava) e il saggio Vidura. Arrivano e dopo essersi salutati e essersi informati della reciproca salute pernottano nell’eremo dove il re e gli altri stavano. Il giorno dopo si ritrovano tutti seduti insieme anche agli asceti dell’eremo; sopraggiunge anche Vyāsa che si unisce al gruppo. Di colpo l’atmosfera si fa molto triste poiché ognuno ricorda tutto il dolore che la guerra gli ha causato, soprattutto si addolorano Dhr̥tarāṣṭra e Gandharī che hanno perso tutti i figli in battaglia: ma Vyāsa li consola ricordando che tutti sono morti da eroi combattendo con onore, e il destino degli eroi è rinascere in paradiso. A quel punto annuncia che, se lo seguiranno fino al Gange, potranno, quella notte stessa, avere la visione di tutti gli eroi caduti: tutti sono felici e emozionati all’idea, e si recano sulle sponde del Gange aspettando la sera, che pare non arrivare mai. Quando finalmente scende il buio, Vyāsa si immerge nel Gange e chiama a sé tutti gli eroi caduti in battaglia: si sente allora un grande tumulto e dall’acqua del Gange emergono tutti gli eroi, armati di tutto punto, ma gioiosi e ben disposti l’uno nei confronti dell’altro. Tutti si abbracciano, tutti si salutano e persino il cieco Dhr̥tarāṣṭra può vedere, per la prima volta, i suoi 100 figli. Poi, congedati da Vyāsa, tutti rientrano nel Gange e scompaiono come erano apparsi, lasciando però i vivi felici di sapere che tutti i caduti sono in paradiso e conducono una vita piena di gioia.
Quando la visione è terminata, Vyāsa si rivolge alle centinaia di mogli di tutti gli eroi caduti in battaglia, che, in quanto a quello affidate, avevano seguito Dhr̥tarāṣṭra nella foresta, e dice loro che chi vuole raggiungere i propri mariti non ha che da tuffarsi nel Gange: e così, molte delle donne presenti, congedatesi dal re Dhr̥tarāṣṭra, si gettano nel Gange e, ottenuto un corpo divino, raggiungono in paradiso i loro mariti.
A tanto arriva la potenza di Vyāsa.

4 pensieri su “Personaggi del Mahābhārata: Vyāsa e Satyavatī

  1. Riccardo

    Grazie Giulio!
    Non venivo qui da un bel po’ e noto con Piacere che hai lavorato molto sul versante mahAbharata.
    Un abbraccio
    Riccardo

    Rispondi
    1. Giulio Geymonat Autore articolo

      Grazie a te della visita e del commento!
      Ormai è inutile ch’io mi nasconda: sono caduto nel tunnel del mahAbhArata!
      Un abbraccio a te!

      Rispondi
    1. Giulio Geymonat Autore articolo

      Grazie a lei per il commento (che mi trova d’accordo: ed è una delle cose belle di leggere il Mahābhārata, un arricchimento della fantasia)

      Rispondi

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