La fase antichissima: ricchezza e misteri

Quando guardiamo al sub-continente Indiano nella sua fase proto-storica, e in particolare al periodo che va dal III millennio a.C. alla prima metà del I millennio a.C., siamo colpiti sia dalla ricchezza e abbondanza dei prodotti culturali (tangibili e intangibili) a noi giunti, sia dall’esistenza di questioni, di cruciale importanza, ancora sostanzialmente irrisolte.

In tale arco di tempo si succedono infatti: l’epoca d’oro della cosiddetta civiltà della valle dell’Indo (III millennio a.C.); il suo rapido e misterioso declino (inizio II millennio a.C.); la fase antica della civiltà vedica (XV? sec. a. c.); la fase matura della medesima civiltà vedica (X? sec. a.C.); e, infine, una folgorante rinascita dell’urbanismo, la crisi del sacrificio vedico e la diffusione delle eresie anti-vediche, in primis buddismo e jainismo (V sec. a. C.).

A livello geografico, nello stesso lasso di tempo, si constata uno spostamento verso Est del baricentro della civiltà nel suo complesso: dal sistema fluviale dell’Indo attorno a cui si sviluppa e fiorisce la civiltà della valle dell’Indo, detta anche di Mohenjo-Daro e Harappa (dal nome di due delle maggiori città: ma i siti urbani sviluppatisi lungo l’Indo e immessi in uno stesso tessuto economico-culturale furono decine e decine); all’area che si estende dal Nord-Ovest del subcontinente indiano fino al Punjab (la terra dei cinque fiumi), dove origina la civiltà vedica; e ancora, la pianura gangetica, dove si sviluppa pienamente la civiltà vedica e dove, in un’espansione sempre più a Est lungo il Gange, avviene poi la rinascita urbanistica e si svolge la predicazione del Jina e del Buddha (e sarà poi in particolare nel Magadha, cioè a Sud-Ovest del Gange, nell’odierno Bihar, che sorgerà, dal IV a.C., la prima grande dinastia imperiale dell’India, quella dei Maurya).

In tale quadro, una delle questioni impossibili da risolvere (fino ad oggi, in ogni caso, non ci si è riusciti), ma anche impossibile da ignorare data la sua importanza, è sicuramente quella della relazione fra la civiltà della valle dell’Indo e quella vedica.

Fino a qualche decennio fa ci si accontentava di una spiegazione che attribuiva alla civiltà della valle dell’Indo un rapido e misterioso declino (perlopiù spiegato invocando improvvisi e drammatici cambiamenti climatici), che ne avrebbe decretato la completa scomparsa prima dell’arrivo degli aria (o ariani), un popolo semi-nomade proveniente (forse) dalle steppe dell’Asia Centrale, portatore del Veda e delle conoscenze ad esso connesse, che parlava una lingua indoeuropea e a cui si dovrebbe la fondazione della civiltà vedica, che per questo non avrebbe avuto nulla a che fare con quella della valle dell’Indo.

E’ già da un pezzo però che, da un lato si è messo fortemente in discussione il modello dell’invasione di un popolo arrivato dall’altopiano iranico intorno al XVII secolo a. C. (data, a dire il vero, fortemente arbitraria); e d’altro lato si è dimostrato archeologicamente (seppur molto del lavoro vada ancora fatto) che il territorio attraverso cui e in cui avrebbe dovuto aver luogo l’invasione ariana (cioè l’area fra il Nord-Ovest del sub-continente e il Punjab) era fortemente disseminato di centri urbani facenti parte dell’area di influenza della civiltà di Mohenjo-Daro e Harappa, la quale per quanto indubbiamente ebbe un tracollo all’inizio del II millennio a.C., non può d’altra parte essersi volatilizzata nel nulla.

Quel che, a prescindere dall’interpretazione che a tutta la faccenda si voglia poi dare, bisogna tenere ben presente, è che la civiltà della valle dell’Indo ci è nota grazie a importanti testimonianze archeologiche — e in particolare rovine di svariate città da decine di migliaia di abitanti e di una grande quantità di centri urbani meno estesi ma ben edificati, oggetti in ceramica, sepolture, sigilli in terracotta, statue di sacerdoti, di dee madri e di ballerine, giocattoli in terracotta, meravigliosi gioielli, forni, suppellettili e altri reperti di cultura materiale — ma non siamo riusciti a decifrare la sua scrittura, di cui però abbiamo sicura testimonianza soprattutto nei sigilli, ma anche nelle ceramiche, ed è stata rinvenuta anche una scritta “pubblica”, di svariati metri, con ogni probabilità una forma di insegna: sono però tutti passi brevissimi, consistenti forse in una o due parole, al massimo tre, e sta di fatto che ad oggi nessuno è ancora riuscito a dare delle interpretazioni convincenti; interessante notare che la stessa civiltà della valle dell’Indo abbandonò nella sua fase più matura la scrittura, di cui, a partire da una certa epoca, sui sigilli e sulle ceramiche non vi è più traccia.

La civiltà vedica, al contrario, ci è nota attraverso un’imponente mole di letteratura sacra — in particolare inni in metriche complesse, altamente poetici, in onore di divinità e fenomeni naturali, inni di contenuto mistico-filosofico, inni con tematiche mondane, copiosi testi in prosa di esegesi del rituale contenenti una notevole quantità di miti cosmogonici e storie sull’origine del sacrificio, testi di contenuto prettamente mistico e filosofico, incantesimi e formule magiche (in alcuni casi forme di proto-medicina), forme di annotazione musicale, testi di etimologia, di fonologia, di geometria e di astronomia — ma pressoché nessuna testimonianza archeologica (solo un po’ di ceramica e non particolarmente raffinata).

E’, sia ben chiaro, a partire dall’analisi di questi testi che gli studiosi hanno provato a dare dei connotati precisi alla civiltà vedica: per esempio, poiché non si menziona l’esistenza di città ma solo di villaggi, si è teorizzato che la civiltà vedica non conoscesse città ma solo piccoli insediamenti (il che spiegherebbe anche la menzionata assenza di reperti archeologici riconducibili agli ariani, salvo scontrarsi col dato archeologico che testimonia dell’esistenza di città pre-ariane nella zona di arrivo degli ariani), oppure si è immaginato che venisse utilizzato (per motivi bellici) il cavallo addomesticato poiché viene indicato come una delle più prestigiose vittime sacrificali nel principale sacrificio regale, o ancora si è pensato che l’agricoltura non fosse all’inizio molto praticata, dato che la maggior parte dei termini agricoli non sembra avere origini indo-europee (il discorso sull’origine dei singoli vocaboli è molto complesso e anche, sinceramente, abbastanza aleatorio, ma lo menziono per dire che non solo dall’analisi letteraria ma anche da quella linguistica si sono tratte conclusioni su come dovesse essere nella realtà la civiltà vedica: un procedimento evidentemente passibile di dare luogo a interpretazioni che a una visione più distaccata appaiono fantastiche, tanto più in mancanza di testimonianze archeologiche capaci di confermarle).

Tornando alla relazione fra civiltà della valle dell’Indo e civiltà vedica, appare chiaro che se ci sbarazziamo del tutto dell’idea di un popolo superiore che conquista una terra popolata da razze inferiori (idea che risultò di certo funzionale a fornire un precedente mitico alla colonizzazione occidentale, definibile come neo-ariana, dell’India, ma che è evidentemente ascientifica); se ci sforziamo in particolare di immaginare un modello che non leghi il fenomeno della diffusione delle lingue indoeuropee a massicce invasioni di popoli parlanti lingue indo-europee (forse l’indoeuropeo, che poi nel caso dell’India dovrebbe essere il vedico o una lingua simile, aveva qualcosa di più funzionale per la gestione del potere rispetto alle lingue a danno delle quali si è diffuso, ma nel diffondersi non ha alterato più di tanto le strutture socio-economiche, o antropologiche, preesistenti, che sono invece mutate per dinamiche proprie); e se infine diamo il giusto peso al fatto che a livello geografico l’antica civiltà vedica dovrebbe aver avuto origine in un territorio fortemente influenzato dalla civiltà della valle dell’Indo, e proprio nel periodo immediatamente successivo al suo tramonto, sembra più che ragionevole pensare che vi siano state eccome profonde e diverse relazioni fra le due civiltà.

Non mi pare del resto verosimile che una popolazione semi-nomade dedita più che altro alla guerra e alla pastorizia possa aver concepito un qualcosa di tanto complesso e grandioso (e ardito) come il sacrificio vedico, né tanto meno possa aver raggiunto la notevole quantità di conoscenza codificata nei Veda, senza l’apporto di una civiltà già pienamente sviluppata, quale indubbiamente quella di Mohenjo-Daro e Harappa era, e d’altra parte mi pare inverosimile che una civiltà che intratteneva, nel III millennio a.C., fiorenti relazioni commerciali con tutto il Medio Oriente, fino alla Mesopotamia, che era stata in grado di costruire e mantenere in vita estese città, che aveva dato luogo a notevoli produzioni manifatturiere, e che aveva saputo mantenere una situazione di sostanziale pace e di prosperità per più di un millennio, possa essere scomparsa del tutto, e con essa il bagaglio di conoscenze e la visione del mondo che gli furono proprie.

Anche, cambiando argomento, la questione delle origini dello yoga ha molto a che fare con questo problema della relazione fra le due civiltà antiche dell’India, e anzi è uno dei cavalli di battaglia di chi sostiene una qualche forma di continuità o comunque di profonda relazione fra di esse.

Infatti da un lato non vi è menzione dello yoga nei testi vedici più antichi, e quindi vien da chiedersi da dove esso salti fuori (di fatto il primo a parlare di tecniche yoghiche, presentate già pienamente sviluppate, fu il Buddha nei suoi discorsi, trasmessi nel canone Pali), e d’altro lato esistono almeno tre sigilli della valle dell’Indo dove è rappresentata quella che sembra una divinità con delle corna di bufalo (che potrebbero anche far parte di un copri-capo), con intorno numerosi animali apparentemente selvatici e assisa in una posizione molto simile a quella che poi sarà nota come posizione del loto (si è soliti riferirsi al più noto di tali sigilli come al sigillo del proto-Shiva).

Proprio questi sigilli, nelle tesi dei sostenitori della continuità fra le due civiltà, dovrebbero essere la prova da un lato dell’origine autoctona (pre-ariana) dello yoga, e d’altro lato dello scambio profondo fra le due civiltà (si potrebbe per esempio immaginare che le pratiche yoghiche, originate nell’ambito della civiltà della valle dell’Indo, avessero poi fatto parte, nell’ambito della civiltà vedica, di una conoscenza esoterica, e per questo non se ne avrebbe esplicita menzione nei Veda, e che, sempre perché era una conoscenza esoterica, proprio il Buddha, in quanto anti-vedico, guarda caso, portò alla luce tale conoscenza segreta — per affermare per altro, il Buddha, che la vera meditazione era un’altra, la famosa vipassana o presenza mentale).

Sia come sia la questione della relazione fra queste due antiche civiltà (io, banalmente, non sono né per un’ipotesi di separazione totale fra le due civiltà, né per un’ipotesi di perfetta continuità fra di esse), certo è che è impressionante la quantità di conoscenze che, fra il III e il I millennio a.C., troviamo materialmente espresse nei reperti archeologici degli uni e codificate nei testi degli altri: con buona pace dell’euro-centrismo e del miracolo greco!

2 pensieri su “La fase antichissima: ricchezza e misteri

  1. Riccardo

    Bel testo! E pensare che ancor oggi, troppo spesso, si parla di invasione ariana.
    Perchè però, quando parli di monumenti vedici, ti riferisci ai testi scritti ? Io penso che il vero monumento lasciato dalla civiltà vedica sia mnemonico: certo noi dobbiamo accedervi attraverso la porta di servizio della scritrura ma penso che quello sia solo un’ombra di quel colossale monumento che si è sviluppato solo grazie all’enorme (quasi delirante) sforzo mnemonico. Mi vengono in mente le funamboliche permutazioni sillabiche a cui vengono sistematicamente (ancor oggi) sottoposti i versi vedici che di fatto fanno sconfinare alcune forme di recitazione vedica nel dominio della musica.

    Rispondi
    1. Giulio Geymonat Autore articolo

      Ciao Riccardo, grazie del commento.
      Hai ragione, è errato parlare di testi per la civiltà vedica (per svariati motivi) e mi piace l’immagine della porta di servizio. Forse bisognerebbe considerarli alla stregua di reperti archeologici, per definizione parziali e da decifrare secondo visioni più ampie: un ulteriore aspetto della specularità al negativo delle due civiltà!
      Quanto alle tecniche di memorizzazione, io ne so poco; mi ha sempre fatto più che altro impressione pensare a che tipo di vita dovessero condurre “i memorizzatori”, e mi piace immaginare con Daya Krishna (non ricordo in che articolo o libro) che gli ambienti dediti alla memorizzazione dei testi potevano non coincidere con quelli che li interpretavano e li capivano, e anzi i due ambienti potevano addirittura essere in qualche forma di opposizione dialettica. In questo senso lo sconfinamento di cui tu parli della recitazione vedica nel dominio della musica non può che essere una conferma che in certi ambienti sacerdotali (forse la maggior parte?) lo specifico significato delle parole era del tutto secondario rispetto al loro suono (c’è del resto il sAmaveda che, sempre secondo Daya Krishna, e io ci credo, testimonia proprio di questa tendenza a sminuire il significato del testo a favore della melodia, posizione in chiara opposizione dialettica con il Rgveda). Resta che quando parliamo di inni del Rgveda dovremmo sempre tenere ben presente che non abbiamo chiara nozione di quando, dove, da chi, in che contesto e per chi siano stati composti, e, ripeto, la certezza che non abbiano nulla a che fare con la civiltà della valle dell’Indo ormai non ha più molto senso, mancando ogni riscontro archeologico che possa farcelo escludere (anche la presunta assenza di ossa di cavallo domestico come prova inconfutabile dell’estraneità delle due civiltà è attualmente molto messa in discussione: da un lato le ossa del cavallo selvatico, sicuramente presente, non sono poi così tanto diverse da poter essere certi che non si tratti del cavallo domestico — solo alcune parti sono nettamente distinte, ma non sempre si trovano proprio quelle — e d’altro lato potrebbe essere stato usato solo per importanti ma rari sacrifici con esemplari importati, e non abbiamo ancora avuto la fortuna di trovarne uno).

      Rispondi

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *