L'”ideologia” della Bhagavadgītā

La Bhagavadgītā fa parte del Mahābhārata (risalente ai primi secoli d. C.), immenso poema (più di 100000 versi) che narra l’epopea di una famiglia reale, i Bhārata (tutti discendenti da un mitico re Bharata), che per una diatriba fra due ali di cugini, i Kaurava e i Pāṇḍava, finisce per sterminarsi a vicenda in una sanguinosa guerra che coinvolge tutti i regni e i popoli dell’India.

La Bhagavadgītā, pur inserendosi perfettamente nella trama dell’epopea, ha però, da tempo immemorabile, acquisito uno status indipendente dal resto del poema, poiché in essa troviamo sinteticamente esposto un messaggio salvifico, una via per il superamento di tutte le angosce e i dilemmi della vita.
La teoria della Bhagavadgītā in effetti marca un vero e proprio punto di svolta nella storia del pensiero filosofico e soprattutto religioso dell’India antica: si può senz’altro dire che la Bhagavadgītā inaugura e fonda quel pensiero e sentimento religioso che nei secoli successivi diventerà il cosiddetto induismo. Non a caso si è usata, per riferirsi alla Bhagavadgītā, l’espressione “vangelo dell’India”, espressione che se appare complessivamente inadeguata perché il messaggio della Bhagavadgītā è quanto di più distante da quello del Vangelo cristiano, non può d’altra parte essere bollata come del tutto errata proprio perché la Bhagavadgītā è un testo sia fondativo del pensiero religioso successivo, che di rottura col pensiero religioso precedente, e in questo senso ha il valore di un Vangelo.
Ovviamente un’immensa mole di testi oltre alla Bhagavadgītā contribuirono a dare forma al pensiero e al sentimento religioso dell’India, e in particolare importantissimi sono in questo senso i Purāṇa, e va detto che la religiosità indiana, nella sua enorme varietà, include anche importanti ambiti che nella Bhagavadgītā sono totalmente assenti (per esempio i culti della Dea madre), ma da un lato probabilmente la Bhagavadgītā è precedente cronologicamente ai Purāṇa, e d’altro lato essa è certamente più strettamente connessa con la fase precedente del pensiero indiano, quella vedica e in particolare upaniṣadica. In effetti, la Bhagavadgītā è connessa anche con il pensiero più propriamente filosofico rappresentato, fra gli altri, dal sāṃkhya e dallo yoga, sistemi cui la Bhagavadgītā fa spesso riferimento.
Protagonisti della Bhagavadgītā (la Bhagavadgītā consta di XVIII capitoli, in tutto circa 700 versi) sono Kṛṣṇa e Arjuna (uno dei cinque cugini Pāṇḍava, quello di gran lunga più forte in battaglia, figlio di Indra, re degli dei): in particolare, punto di partenza della Bhagavadgītā è un profondo sconforto che assale Arjuna nel vedere, schierati nell’esercito nemico pronto alla battaglia, parenti, maestri e amici (come si è detto si tratta di una faida fra cugini), sconforto che determina in Arjuna la volontà di rinunciare a combattere, poiché non vuole uccidere persone per le quali sarebbe pronto anzi a morire, ed è questo momento di debolezza (che potrebbe, in termini pacifisti, essere invece preso come momento di saggezza) a dare avvio al discorso di Kṛṣṇa, che di Arjuna è l’auriga e che desidera risvegliare in lui l’animo del grande guerriero andato in crisi proprio al momento di attaccare battaglia.
La morte, rivela Kṛṣṇa ad Arjuna all’inizio del suo discorso, è illusoria, nessuno nasce se prima non c’era già, nessuno muore in modo tale da non esserci più: la realtà è un continuum di nascita e morte, morire è come passare dall’infanzia alla gioventù e dalla gioventù alla vecchiaia, è come cambiare veste quando essa è logora. Addolorarsi come fa lui per la morte che causerebbe (e causerà) ai suoi cari combattendo è quindi insensato, frutto di ignoranza e non di saggezza: è chiaro qui il riferimento, e il “superamento” del pensiero del Buddha (VI a.C.), che proprio per sconfiggere la morte rinuncia al suo ruolo di re e va alla ricerca della via per l’estinzione, che trova nel nirvāṇa, “lo spegnimento” capace, secondo il Buddha, di sottrarre per l’eternità gli esseri umani all’insensata e dolorosa catena di nascita e morte.
Il fondamento della visione “eternalista” della Bhagavadgītā, che teorizza un essere eternamente vivo, o — Kṛṣṇa contempla anche questa possibilità — che eternamente nasce e muore, sono indubbiamente le upaniṣad, e del resto Kṛṣṇa parla proprio di ātman, che possiamo tradurre con Sé, parola chiave della svolta upaniṣadica.
Il secondo argomento che Kṛṣṇa utilizza per convincere Arjuna dell’errore che farebbe a non combattere è di tipo morale-sociologico: è dovere morale e sociale di Arjuna combattere, è il suo dharma, il suo dovere di guerriero, e il dharma è il fondamento dell’intera società umana. Inoltre Arjuna appartiene all’élite dominante il cui esempio la massa segue, e se lui non fa il suo dovere, perché mai dovrebbero farlo gli appartenenti agli strati inferiori della società? Di nuovo viene in mente, come esempio negativo, come esempio di adharma, il Buddha e la sua rinuncia al trono (non è un caso del resto che Buddha chiami la sua via proprio Dharma, termine a cui, per forza, dà un’accezione diversa, non più dovere sociale, ma dovere etico, primo fra tutti non uccidere, e in questo senso si può parlare, per lo sconforto iniziale di Arjuna, di una “tentazione buddista”, cui il discorso di Kṛṣṇa risponde).
Fin qui il discorso di Kṛṣṇa è molto lineare: la morte è un’illusione per cui Arjuna non ha motivo di addolorarsi, e deve combattere perché questo è il suo dovere, e compiere il suo dovere gli garantirà, in caso di morte, il paradiso, e in caso di vittoria, la supremazia e il potere; rinunciando a combattere incorrerebbe invece nel male morale (pāpam, in sanscrito) e ne otterrebbe solo duratura ignominia.
Tale discorso lineare è definito da Kṛṣṇa come pertinente a una logica sāṃkhya (che in effetti è un sistema filosofico di tipo razionale): ma a questo punto (siamo al verso 39 del II canto) Kṛṣṇa esorta Arjuna ad ascoltare l’insegnamento di tipo yoga, un insegnamento grazie al quale potrà distruggere i legami del karma, cioè annullare le conseguenze morali delle sue azioni. E’ questo il vero punto di svolta della Bhagavadgītā, dove comincia l’insegnamento segreto, cioè nuovo, che culminerà nella via della devozione (bhakti) a Kṛṣṇa stesso.
E’ interessante notare che tale via si mette prima di tutto in opposizione con la via dei seguaci del Veda, che vengono senza mezzi termini accusati di essere profondamente attaccati ai loro desideri, persi in un dedalo di formule e atti sacrificali volti a raggiungere obiettivi mondani. E’ questo un attacco frontale a quella che è stata, fino ad allora, e in parte sarà ancora, l’ortodossia. Il problema con tali seguaci del Veda è l’attaccamento ai propri desideri, attaccamento che per primo va abbandonato. Ripetutamente nei capitoli successivi Kṛṣṇa dirà che è proprio il desiderio il grande nemico della felicità e della realizzazione umana, in tal modo per altro rivelando una grande affinità col pensiero del Buddha, per il quale il desiderio, e in particolare il desiderio erotico è la morte stessa (con la famosa equazione Kāma = Māra, dio della morte), e la morte è quel che il Buddha si prefigge di sconfiggere tramite il nirvāṇa.
Per Kṛṣṇa la morte si sconfigge al contrario gettandosi nell’azione, svolgendo appieno il proprio compito sociale, lucidamente distaccati ed equanimi rispetto agli esiti ultimi di tale agire, siano essi la vittoria o la sconfitta, la gloria o l’infamia. Superando il desiderio si può compiere, per la Bhagavadgītā, l’atto perfetto che libera dalle conseguenze dell’azione stessa, che si trasforma in una continua offerta alla divinità, Kṛṣṇa.
E’ la famosa formula della “rinuncia ai frutti dell’azione”, il karmayoga o Yoga che è azione, che oltre ad avere come nemico il desiderio, che si annulla con la menzionata equidistanza dai risultati concreti dell’azione intrapresa, ha come nemico forse ancora maggiore la rinuncia come distacco da un tutto sociale, come atto quindi profondamente anti-sociale. Di nuovo viene in mente proprio il buddismo e in generale quei movimenti eremitici che attraversarono la società indiana antica circa dal VII al V a.C influenzandone in parte l’andamento storico e determinando la definizione dell’ideale della rinuncia, rappresentato dal purusārtha (scopo dell’uomo) mokṣa (liberazione), che diventa il “summum bonum” profondamente caratteristico della civiltà indiana classica.
Ovviamente anche lo yoga, al di fuori della Bhagavadgītā, fa parte di quel filone cosiddetto śramaṇa, formato da “veri” rinuncianti, che si riconoscono in pieno nell’ideale della rinuncia, non tanto e solo ai frutti dell’azione, ma all’azione stessa. In questo senso si spiega la quasi necessità per Kṛṣṇa di chiamare la propria, anzi le proprie vie, utilizzando ogni volta un composto che contiene la parola yoga, annullando in tal modo dello yoga la sua portata “anti-sociale” e addomesticandolo verso una via dell’azione (karma), della conoscenza (jñāna) e della devozione (bhakti).
Alla luce di questa nuova interpretazione del concetto di rinuncia, si definisce la nuova figura del rinunciante: non più un uomo che vive e ama l’isolamento, sullo stile tante volte descritto in testi come il Dhammapada, ma un uomo pienamente calato nell’agire sociale, che nel profondo del proprio sé coltiva il distacco assoluto, ma all’esterno manifesta tutti i segni del coinvolgimento emotivo, per non turbare la visione classica, che serve di stimolo alle masse non illuminate, della vita come risultato dello sforzo e dell’impegno di ognuno di noi.
Checché se ne dica, la via descritta nella Bhagavadgītā è una via profondamente elitaria, come del resto lo è quella buddista (che sennò sarebbe veramente socialmente devastante, cosa che non vuole essere): la maggior parte delle persone rimane sullo sfondo, incatenata al peso delle proprie azioni e alla dimensione emotiva del personaggio che incarna, costretta a perseguire la propria via (e quindi il proprio dharma), nel bene e nel male, vivendo diversi gradi di illusione.
La via più “larga”, cioè meno elitaria, che troviamo tracciata nella Bhagavadgītā è sicuramente quella della devozione, in sanscrito bhakti, al dio personale che è Kṛṣṇa, che deve diventare il referente ultimo di ogni atto umano, concepito come un’offerta a Kṛṣṇa, dono totalmente disinteressato. La Bhagavadgītā non si stanca di ricordare che segno distintivo di una tale azione è il suo essere rivolta alla realizzazione del bene di tutti gli esseri: è quindi l’azione di un uomo giusto e buono, di un uomo mai crudele, e sensibile alla felicità altrui. Abbandonandosi totalmente al dio Kṛṣṇa, questa la conclusione estrema del ragionamento, si deve agire lasciandosi alle spalle tutti i dharma, i doveri etici, ormai vuoti di senso ultimo dato che il senso di tutto è solo Kṛṣṇa, di cui bisogna seguire e realizzare la volontà.
Del resto è questo forse uno dei messaggi della Bhagavadgītā più sconvolgenti, che viene ribadito più e più volte anche altrove nel Mahābhārata, messaggio di rottura col passato e in generale col pensiero indiano antico nel suo complesso: migliore e superiore all’azione dettata dal dharma è l’azione che segue il volere della divinità sovrana, volere che bisogna seguire e realizzare anche quando esso è in apparente contrasto con il dharma. Del resto svariati eroi nemici, appartenenti cioè allo schieramento dei Kaurava, vengono uccisi infrangendo le regole del dharma (ed è il più delle volte Kṛṣṇa stesso a suggerire di fare così), cioè le regole del combattimento regolare, seguendo le quali quei nemici non sarebbero potuti essere stati uccisi perché troppo potenti (si pensi alle morti per esempio di Bhīṣma, Droṇa, Karṇa e Duryodhana, tutti combattenti letteralmente imbattibili).
La Bhagavadgītā e il Mahābhārata più in generale dimostrano che il dharma serve per guidare le masse, ma può essere abbandonato a favore dell’atto consacrato a dio, atto che di lui realizza la volontà, e che, se anche formalmente contrario al dharma, va compiuto comunque perché è di un ordine superiore.
Arjuna ovviamente ha la fortuna di averlo al suo fianco in carne ed ossa il dio, nella figura di Kṛṣṇa, suo fedele e prode auriga, ed è quindi più facile per lui chiedergli consigli sul da farsi o seguirne gli ordini: ma la teoria dell’Atman garantisce, almeno in teoria, ad ognuno di noi la possibilità, entrando in contatto con la nostra più profonda intimità, di incontrare il Signore in persona, da meditare, amare e a cui abbandonarsi, fiduciosi che saprà indicarci l’azione giusta da compiere verso la felicità nostra e di tutti (azione che potrebbe anche essere, come si è detto, in contrasto col dharma).

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