La Pārvatī di Kālidāsa fra ascesi e erotismo

Kālidāsa nel capitolo V del suo famoso Kumārasambhava, o “La Nascita del Principe”, ci racconta la storia di come Pārvatī, dopo aver visto clamorosamente fallire l’effetto della sua bellezza su Śiva, decide di dedicarsi ad un’ascesi talmente intensa da acquisire quel potere su di lui che la sua pur straordinaria bellezza non le aveva dato: si dedica cioè all’ascesi non — come solitamente avviene — per ottenere la liberazione, ma per ottenere un marito.
Insomma, Pārvatī si dedica all’ascesi per amore!
E, con la sua “ascesi erotizzante”, riesce in effetti nel suo intento di far innamorare Śiva e diventa la sua sposa (dall’unione dei due nascerà Skanda, l’unico in grado di sconfiggere il demone Tāraka, la cui minacciosa ascesa nessun dio era riuscito a fermare).
In pratica, nella Pārvatī di Kālidāsa, gli opposti ideali di ascetismo e erotismo, di mortificazione della carne e di esaltazione della bellezza, si fondono, e, più Pārvatī si dedica all’ascesi, più diventa bella e attraente.
Di seguito, per darvi un esempio di questa insolita, ma così tipica dello spirito di Kālidāsa, commistione fra ascetismo e erotismo, alcuni versi tratti dal capitolo V del Kumārasambhava.
vimucya sā hāram ahāryaniścayā vilolayaṣṭipraviluptacandanam
babandha bālāruṇababhru valkalaṃ payodharotsedhaviśīrṇasaṃhati //8//
“Lei, inflessibile nella sua decisione, si sbarazzò della collana, che ondeggiando era solita portarle via la pasta di sandalo dal seno, e si legò una veste di corteccia, di colore rosso scuro come le prime luci dell’alba, che non le stava del tutto attaccata al corpo per la soda pienezza dei suoi seni”
Nel verso successivo Kālidāsa ci dice che i capelli non pettinati, che caratterizzano ogni asceta (a partire dallo stesso Śiva), non riescono assolutamente a rendere il suo viso meno attraente, anzi:
yathā prasiddhair madhuraṃ śiroruhair jaṭābhir apy evam abhūt tadānanam /
na śaṭpadaśreṇibhir eva paṅkajaṃ saśaivalāsaṅgam api prakāśate //9//
“Come lo era con i capelli perfettamente pettinati, così il suo volto era incantevole anche con i capelli da asceta: un loto non è splendido solo con file di api su di esso, ma anche quando ha sopra di sé un’alga”
E la corda votiva, fatta di erba sacra, ha l’effetto di farle rizzare i peli su tutto il corpo (un tipico segno, in ambito indiano classico, dell’eccitazione erotica) colorandole per di più i fianchi di rosso (verso 10):
pratikṣaṇaṃ sā kṛtaromavikriyāṃ vratāya mauñjīṃ triguṇāṃ babhāra yām /
akāri tatpūrvanibaddhayā tayā sarāgam asyā rasanāguṇāspadam //10//
“La corda di erba sacra che, per il suo voto, lei, dopo essersela messa da sola, portava intorno alla vita, ad ogni istante le faceva rizzare i peli sul corpo e le arrossava i fianchi”.
Qualche verso dopo, ecco Pārvatī (non senza una certa malizia) affidare, per poterli poi riprendere al momento opportuno, due sue caratteristiche a due insoliti affidatari (verso 13):
punar grahītuṃ niyamasthayā tayā dvaye ‘pi nikṣepa ivārpitam dvayam /

latāsu tanvīṣu vilāsaceṣṭitaṃ viloladṛṣṭaṃ hariṇāṅganāsu ca //13//
“13. Per poterli riprendere più tardi, lei, ferma nel suo voto, diede in pegno due cose a due diversi affidatari: agli esili rampicanti diede le sue seducenti movenze, e alle cerbiatte i suoi mobili sguardi”
Nel verso 14 Kālidāsa ci dipinge Pārvatī impegnata a nutrire dei giovani alberi col latte dei suoi seni simili a vasi (svayam eva vṛkṣakān ghaṭastanaprasravaṇair vyavardhayat) e nel 15 la vediamo misurare l’ampiezza dei suoi occhi confrontandola con quella di alcune cerbiatte, divenute sue amiche dopo che lei le ha nutrite con manciate di semi della foresta (in questi due versi la figura di Pārvatī ricorda, fin quasi a confondersi con essa, Śakuntalā, un’altra indimenticabile eroina di Kālidāsa, protagonista dell’omonima opera di teatro; è molto probabile che Kālidāsa abbia scritto prima la Śakuntalā del Kumārasambhava: ma chi può dirlo con certezza?)
Il verso 16, a me pare, ha dei chiari risvolti ironici:
kṛtābhiśekāṃ hutajātavedasaṃ tvaguttarāsaṅgavatīm adhītinīm /
digdṛkṣavas tām ṛṣayo ‘bhyupāgaman na dharmavṛddheṣu vayaḥ samīkṣyate //16//
“16. I veggenti (ṛṣi) si recavano da lei, desiderosi di vederla con indosso il suo vestito di corteccia, dopo che aveva fatto le sue abluzioni mattutine, quando sacrificava al fuoco o quando era impegnata a studiare i testi sacri: nei confronti di chi è grande per i meriti, l’età non è tenuta in considerazione”.
L’ironia sta nel fatto che in teoria sarebbe più normale che siano i ṛṣi a ricevere visite, ma siccome Pārvatī è Pārvatī … Anche parecchio ironica a me pare l’espressione dharmavṛddheṣu dove vṛddha significa solitamente “vecchio” e fa pensare più ai ṛṣi che a Pārvatī (che è giovanissima!), ma appunto invece si riferisce a Pārvatī e giustifica il fatto che siano i ṛṣi a omaggiarla con una visita e non viceversa (per avere un’idea di una situazione normale, si pensi che Rāma, quando è in esilio nella foresta a fare l’asceta “forzato”, passa gran parte del suo tempo appunto a rendere visita a rinomati ṛṣi).
Dopo aver descritto, nel verso successivo, l’effetto purificante che Pārvatī esercita sulla foresta con la sua presenza, nel verso 19 Kālidāsa ci dice che lei, ritenendo insufficiente, per ottenere il frutto che si era prefissata (cioè l’amore di Śiva ), lo sforzo ascetico intrapreso fino ad allora, decide di dedicarsi a pratiche ancor più ardue, descritte a partire dal verso 20, che, come ormai ci aspettiamo, hanno l’effetto di renderla ancora più bella:
śucau caturṇāṃ jvalatāṃ havirbhujāṃ śucismitā madhyagatā sumadhyamā 
/
vijitya netrapratighātinīṃ prabhām ananyadṛṣṭiḥ savitāram aikṣata //20//
tathābhitaptaṃ savitur gabhastibhir mukhaṃ tadīyaṃ kamalaśriyaṃ dadhau /

apāṅgayoḥ kevalam asya dīrghayoḥ śanaiḥ-śanaiḥ śyāmikayā kṛtaṃ padam //21//
“20. D’estate, postasi nel mezzo di quattro fuochi ardenti, lei, dalla vita snella, con un grazioso sorriso sulle labbra, sconfiggendo la luce che le offendeva gli occhi, fissava, senza distogliere lo sguardo, il sole.
21. Il suo volto allora, surriscaldato dai raggi del sole, assunse la bellezza di un loto: solo, sugli angoli dei sui ampi occhi, piano piano, apparve una riga nera.”
Dopo averci detto, nel verso 22, che lei si nutriva solo di pioggia e di raggi lunari, alla maniera degli alberi, nel 23 Kālidāsa ci offre un’immagine straordinaria:
nikāmataptā vividhena vahninā nabhaścareṇendhanasaṃbhṛtena ca /
tapātyaye vāribhir ukṣitā navair bhuvā sahoṣmāṇam amuñcad ūrdhvagam //23//
“23. Surriscaldata in sommo grado dai diversi fuochi, quello nel cielo e quelli alimentati dal combustibile, alla fine dell’estate, inumidita dalle nuove piogge, sprigionò verso l’alto, insieme alla terra, una colonna di vapore”
Ma è il 24, il verso più “sexy” di tutto il passo:
sthitāḥ kṣaṇaṃ pakṣmasu tāḍitādharāḥ payodharotsedhanipātacūrṇitāḥ /
valīṣu tasyāḥ skhalitāḥ prapedire cireṇa nābhiṃ prathamodabindavaḥ //24//
“Le prime gocce di pioggia, fermandosi un attimo sulle sue ciglia, colpendo poi il labbro superiore, polverizzandosi cadendo sulla massa dei suoi seni, e gocciolando fra pieghe del suo ventre, entravano infine lentamente nel suo ombelico”

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