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Come si studia sanscrito con me?

E’ inutile, in effetti, negarlo: lo studio del sanscrito — o comunque lo studio del sanscrito in un’ottica di reale apprendimento — non è per tutti, e questo sostanzialmente per due motivi: il primo, perché non tutti hanno la voglia e la capacità di studiare grammatica (e il sanscrito è grammatica — credetemi — prima ancora di essere lingua) e il secondo, perché non tutti hanno la voglia e la capacità (o forse è più che altro una questione di coraggio) di studiare con l’obiettivo di imparare a memoria (e la grammatica del sanscrito — di nuovo: credetemi — o la si sa a memoria, o non la si sa: non si può avere una vaga nozione della grammatica sanscrita, o meglio la si può avere, ma non serve a nulla di concreto).
E’ impossibile d’altra parte “ritrovarsi” a sapere la grammatica del sanscrito per magia (per esempio a forza di ripetere mantra o sūtra o śloka), o di impararla “inconsciamente” in conseguenza di un utilizzo concreto della lingua (che è poi quello che avviene con le lingue parlate, per le quali studiare la grammatica è forse raccomandabile — non tutti in realtà sono d’accordo — ma non è indispensabile e certamente non ne è il “punto di inizio”).
Anzi a ben vedere con il sanscrito (intendo, dall’inizio di questo post, il sanscrito classico, non la versione moderna parlata, che linguisticamente è perlopiù una specie di Hindi camuffata da sanscrito, e quindi, come tale, non è una lingua indoeuropea antica ma moderna, da studiare perciò come una qualunque lingua moderna, ovvero insistendo molto sulla conversazione), con il sanscrito dicevo siamo, secondo me, decisamente nella situazione opposta.
Per poter infatti operare con il sanscrito, e così facendo progressivamente impararlo (in altre parole per poterlo praticare), bisogna prima di tutto saperne, almeno in parte, la grammatica, e saperla, almeno in parte, a memoria: è un po’ come se sapere la grammatica di base (ripeto, almeno in parte, ma intendo in buona parte) equivalesse a imparare le regole di un gioco a cui, senza sapere le regole, non si può nemmeno cominciare a giocare, e quindi, se non si può nemmeno cominciare a giocare, non si ha nessuna chance di impararlo, e tanto meno di “diventare bravi”.
Ed è infatti questo che io tento di fare coi miei studenti: insegnar loro prima di tutto, o comunque a monte di tutto, un metodo per l’apprendimento mnemonico della grammatica del sanscrito, e una volta impostato questo edificio mnemonico per l’apprendimento della grammatica di base, porto i miei studenti a cimentarsi con l’analisi grammaticale e semantica (e quindi con la traduzione e l’interpretazione) di passi in sanscrito il più possibile interessanti e rilevanti per il significato e/o per lo stile (in termini didattici, ciò significa che se è vero che insisto molto sullo studio “astratto” della grammatica, cerco d’altra parte di minimizzare il più possibile gli esercizi di traduzione basati su frasette semplici ma sostanzialmente insensate: del resto insegno ad adulti che sono perlopiù mossi da forti interessi culturali se non addirittura spirituali e quindi hanno “fame” di contenuti che, credetemi, non mancano in sanscrito: basta saper scegliere!).
Ma torniamo al primo problema: come si impara a memoria la grammatica del sanscrito, prima ancora di cominciare a “usare” il sanscrito?
Come in tutti i metodi mnemonici, il punto è costruire una “rete narrativa”, cioè una storia (che sia il più possibile “memorabile”), con la quale tenere insieme (e prima ancora “acchiappare”) tutti i dati di cui necessitiamo, nel nostro caso le nozioni grammaticali, in modo tale — questo è il vero punto! — che ogni nuova nozione, inserendosi in un dato nodo della rete, rinforzi e rinsaldi la rete nella sua totalità. D’altra parte — e anche questo è importantissimo! — fintanto che lo studente non ha imparato “davvero” a memoria (cioè intendo dire fintanto che il “recupero” di uno specifico dato, di una specifica regola, non è pressoché automatico, cosa che prima o poi dovrebbe, almeno in teoria, avvenire) potrà “rincorrere” il dato che sta cercando lungo i nodi già noti della rete stessa, in modo che, se anche non ricorda il dato specifico (per esempio — dico a caso — che il dativo singolare dei maschili in -i è in -aye, cioè che agni al dativo singolare fa agnaye) può ripercorrere il “ragionamento” (tra virgolette perché ovviamente è un ragionamento in parte fittizio, la cui logica cioè si basa sul tipo di narrativa che uno ha adottato in fase di studio, il che in pratica sarebbe, nel caso dello studio della grammatica di base del sanscrito con me, il percorso che si è seguito per arrivare a quella data nozione, lezione dopo lezione intendo, e le logiche di fondo di questo stesso percorso), e ripercorrendo il ragionamento alla base della narrativa può (sperare di) ricordare quello che ancora non si ricorda a memoria (in ogni caso la strada è quella: saper “collocare” il dato che si deve ricordare in una rete di nozioni che si reggono e si rinsaldano, almeno in parte, a vicenda).
Per esempio, nel menzionato caso del dativo dei temi maschili in -i che fa in -aye, lo studente può ricordare prima di tutto che tutti i dativi singolari dei temi maschili in vocale sono irregolari — tranne, a dire il vero, i temi in -ṛ, che del resto sono una specie di ibrido fra declinazione in vocale e declinazione in consonante, e il dativo regolare, prendiamo pitre da pitṛ, ne è proprio una prova — poi, (stiamo parlando di agnaye), siccome il paradigma dell’irregolarità è il tema in -a — sempre nella “mia” narrativa, ma sfido chiunque a non vedere l’estrema irregolarità dei temi in -a: cambiano addirittura la vocale tematica al plurale! — e il dativo dei temi in -a è in -āya (chi del resto non ricorda oṁ namaḥ śivāya?), allora è “logico” (e qui sta la natura fittizia del ragionamento ovviamente) che agni faccia agnaye e mṛdu — perfettamente parallelo a agni nella sua declinazione — mṛdave. E da qui si potrebbe continuare, dicendo per esempio che invece il dativo dei temi femminili in vocale è sempre in -ai e che d’altra parte tutti i dativi dei temi in consonante, di qualunque genere siano, sono regolarmente in -e: e qui si tocca una certezza, e cioè che tutti i temi in consonante sono regolari a livello di desinenze, poiché è solo il ramo vocalico a presentare delle irregolarità a livello di desinenze (ma rispetto al ramo consonantico, il ramo vocalico della declinazione non dà luogo — di nuovo a parte i temi in -ṛ — ad alcun fenomeno di alternanza vocalica); ecc., ecc., ecc.
In teoria si dovrebbe poter partire da un qualunque elemento specifico della grammatica sanscrita e, seguendo e incrociando i vari “filoni narrativi”, ripercorrere l’intera rete di nozioni, cioè l’intera grammatica di base (io, sinceramente, a volte lo faccio per addormentarmi…).
Ora, uno potrebbe giustamente pensare che sia illogico e un po’ folle sperare di ricordare qualcosa che non si sa (i dati della grammatica sanscrita) utilizzando una narrativa anch’essa ignota, ma in verità la cosa non è affatto illogica e neppure folle, né in assoluto (e infatti tutti i, o comunque la stragrande maggioranza dei, metodi mnemonici si basa proprio su questo principio della “rete narrativa” entro cui tenere i dati che si devono ricordare a memoria, perché è la narrativa che tiene “fermi” i dati, e la narrativa ha una sua logica che si può facilmente ricordare, e ogni volta ricordandola vie più rinsaldare, mentre i dati “isolati” no), né tanto meno la cosa è illogica e folle quando parliamo di sanscrito (anzi secondo me è l’unico modo per imparare davvero la grammatica del sanscrito!).
Perché il sanscrito è — nessuno può negarlo — estremamente regolare, e in particolare risponde a delle logiche di fondo che si possono facilmente individuare e “includere” come tali nella narrativa, rendendola particolarmente stringente, coerente e logica. Se a questo fatto, che dipende dal dato incontrovertibile che il sanscrito non è una lingua naturale ma è il prodotto linguistico di una secolare riflessione grammaticale sul Vedico, si aggiunge il fascino, e l’importanza culturale e linguistica che il sanscrito innegabilmente ha, non è difficile immaginare che profonda, toccante e coerente (e quindi memorabile) narrativa si possa “facilmente” costruire sulla grammatica del sanscrito.
Ma c’è un altro motivo, ancora più importante a dire il vero, che mi fa credere che questo sia il metodo migliore per studiare la grammatica del sanscrito, ed è il seguente: che molto spesso è possibile, e non di rado è decisamente spontaneo, “agganciare” saldamente alcuni dei nodi principali della rete, quindi alcune nozioni diciamo capitali, da un lato al proprio corpo (in particolare al proprio “organo fonetico” cioè al “sistema” fiato, gola, lingua, cavo orale, labbra, naso) e d’altro lato alla propria “coscienza” di parlanti una lingua indoeuropea: studiando la grammatica del sanscrito ci ritroviamo anche, e a volte soprattutto, a studiare noi stessi, a prendere coscienza di meccanismi fonetici, morfologici, grammaticali e semantici che possediamo già in quanto parlanti una o più lingue indoeuropee, ma di cui non siamo perfettamente coscienti, e quindi la narrativa sulla grammatica del sanscrito, elegantemente e intelligentemente, finisce per intersecarsi con una maggiore e più profonda coscienza di sé e della propria essenza di essere parlante e pensante.

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