Mahābhārata: I Pandava e i Kaurava, cugini come esattamente?

Per farsi un’idea di cosa sia il Mahabharata, oltre e più che pensare all’epica (per esempio all’Iliade, all’Odissea o all’Eneide) bisogna anche immaginare una specie di immensa enciclopedia di tutti i possibili comportamenti umani presentati in infinite storie, enciclopedia scritta in un sanscrito semplice ma mai banale nell’arco di svariati secoli fra il II a.C. e il II d.C. con parecchie aggiunte e rimaneggiamenti successivi.
Questa sconfinata enciclopedia (è nel Mahabharata che troviamo la famosa frase “quel che si trova qui si trova anche altrove ma quello che non si trova qui non si trova da nessuna parte”) si snoda secondo criteri di narrativa intrecciata e stratificata (anche per quanto riguarda l’autore) tipica dell’India antica e non solo, capace di rappresentare, coi suoi innumerevoli risvolti e punti di vista, digressioni e approfondimenti, di per se stessa la varietà e la complessità del reale. In particolare il tema di fondo del Mahabharata è il dharma, non però nell’accezione singolare del termine (che in tal caso può essere reso con Giustizia), ma in quella plurale, accezione che implica per definizione il concetto di conflitto fra dharma, conflitto fra interessi di diverse fazioni, fra concezioni diverse della vita, fra obiettivi contrastanti che pongono gli uomini inevitabilmente uno contro l’altro.
Grazie ad una trama di “scontri” molteplici, si intrecciano nel Mahabharata migliaia di storie di uomini e di donne, di dei e semi-dei, storie che confluiscono in una specie di immaginario narrativo collettivo,  parte fondamentale della coscienza “pan-indiana”, e fonte inesauribile di materiale narrativo per i tempi a venire (abbondano in India, in ogni epoca e in ogni lingua, opere ispirate a episodi e personaggi del Mahabharata). E’ interessante in questo senso (cioè nell’ottica di provare a immaginarsi “da dentro”, per così dire,  l’immaginario collettivo indiano antico) ripercorrere le origini dei principali eroi del Mahabharata, ovvero le due opposte fazioni di cugini, i Kaurava e i Pandava, protagonisti del conflitto principale, causato da questioni di diritti ereditari sul regno.
I Pandava e i Kaurava sono cugini primi: i rispettivi padri, almeno quelli “ufficiali” (vedi il resto del post),  e cioè Pandu e Dhrtarashtra, sono infatti fratelli da parte di padre, il veggente Dvaipayana, di due madri diverse, sorelle fra loro, e cioè Ambika e Ambalika, figlie del re di Kashi (cioè l’attuale Varanasi). Ma per provare apprezzare la complessità dell’origine dei cugini Pandava e Kaurava, e per provare a riflettere sulla portata di tali origini sul piano dell’immaginario collettivo, è necessario fare un passo indietro, arrivando al  bisnonno di entrambe le fazioni di cugini,  il grande re Shantanu, nonno “ufficiale” di Pandu e Dhrtarashtra.
Shantanu era un discendente del mitico re Bharata (per questo l’opera nel complesso s’intitola Mahabharata: sarebbe “la Grande storia dei discendenti di Bharata”),  e regnava su Hasthinapura (situata a un centinaio di km a Nord-Ovest dell’attuale Delhi): sarà per Hasthinapura e il suo regno che Pandava e Kaurava arriveranno a distruggersi reciprocamente nella grande guerra del Mahabharata. La storia del primo matrimonio di Shantanu, da cui nascerà Devavrata, più tardi noto come Bhishma, “il Terribile” (zio dei Pandava e dei Kaurava), è per molti versi sconvolgente. Shantanu era il figlio, tardivo, del re Pratipa: re molto saggio, molto forte e molto bello, Pratipa, un bel giorno, dopo che  per lungo tempo si era dedicato a intense pratiche ascetiche lungo le sponde del Gange, fu approcciato da una bellissima fanciulla emersa dalle acque del medesimo fiume. Si trattava della stessa dea fluviale, Ganga, che ammaliata in cuor suo dalle qualità del re Pratipa (e perseguendo i suoi piani), aveva deciso di possederlo: sedutasi sul suo grembo, mentre lui era assorto in meditazione, le rivelò la sua passione e l’intenzione di accoppiarsi con lui. Ma Pratipa, grande re, aveva fatto voto di non accoppiarsi con mogli non sue o con donne di rango diverso (e Ganga in quanto dea era decisamente di un rango diverso!), per cui declina l’invito, accettando però la donna come futura nuora: Ganga un po’ sconcertata dal rifiuto del re, accetta comunque di aspettare la nascita del figlio di questo, e si dilegua. Dopo poco il re Pratipa ottiene la benedizione della nascita di un figlio, appunto Shantanu, che cresce forte e virtuoso. Divenuto un giovane uomo, Shantanu viene installato sul trono di Hasthinapura dal padre, che prima di ritirarsi nella foresta (tradizionale ultima “tappa” della vita di un re) lo informa dell’episodio di Ganga: la dea fluviale è destinata a diventare sua moglie, ma, questo le aveva predetto la medesima dea in occasione del loro incontro, Shantanu non dovrà mai chiederle conto di nulla, dovrà lasciarla libera, in altre parole, di fare ciò che vuole.
Tempo dopo Shantanu, che era diventato un grande cacciatore solitario, inseguendo una serie di prede, finì in un luogo isolato lungo le sponde del Gange: lì vide una fanciulla dalla bellezza irresistibile e colto da immediata passione le chiese di diventare sua moglie. L’incantevole fanciulla non è altri che la dea Ganga, ed accetta di buon grado la proposta del giovane re, a patto però che lui non le chieda mai conto di ciò che lei farà:  sia che compia un’azione piacevole, sia che ne compia una spiacevole lui dovrà lasciarla fare senza chiederle alcunché, e non dovrà, in ogni caso, mai rivolgerle parole dure. In un certo senso siamo di fronte a una proposta di matrimonio a netto stampo “femminista”: aggiunge del resto chiaramente che se il re avesse dovuto anche solo una volta infrangere i patti stabiliti lei se ne sarebbe andata per mai più ritornare. Shantanu, che era già stato avvisato a riguardo dal padre e che era totalmente preso dal fascino della fanciulla, non esita un secondo ad accettare le condizioni da lei poste: “Così sia” le dice e diventano seduta stante marito e moglie.
Shantanu conosce una passione senza limiti, al punto di perdere il senso dei giorni, dei mesi, degli anni, sempre intento ad amare la sua celestiale moglie: passano così otto anni, e ogni anno la regina dà alla luce un figlio. Ma, e questa è la parte sconvolgente della storia, la donna ogni volta porta il neonato lungo la sponda del Gange e lo affoga: il re ne è profondamente sconvolto, ma fedele ai patti presi con la moglie non le chiede nulla a riguardo. Ma all’ottavo figlio, il re non ce la fa più, e proprio quando lei sta per affogarlo come i sette precedenti, la ferma, chiedendole chi sia veramente e perché commetta questo atto atroce e innaturale, perché non lasci mai vivere i suoi figli: lei le spiega tutto, di essere in realtà una dea, Ganga, e di avere agito per dare seguito ad una maledizione caduta sugli otto Vasu, esseri divini, macchiatisi del furto di una vacca sacra. Quindi non erano atti innaturali quelli che lei aveva compiuto nei confronti dei sette precedenti figli, ma anzi atti pieni di compassione, poiché annegando i suoi figli ella li liberava dalla condanna di dover vivere sulla terra, e gli permetteva di riottenere immediatamente la loro forma divina: ma l’ottavo figlio (che sarà Bhishma) era destinato a vivere invece una lunga vita sulla terra, vita di obbedienza e devozione al padre (Shantanu appunto), vissuta in castità senza la benedizione della nascita di un figlio.
A questo punto Shantanu capisce tutto, ma ormai ha infranto il suo patto di non porre mai domande alla moglie, quindi lei lo abbandona portando con sé il figlio piccolo: il re, affranto, torna in città e prova a riprendere una vita normale, dopo gli ultimi anni passati ad amare la dea Ganga. Tempo dopo, mentre Shantanu era impegnato in una battuta di caccia, incontra lungo le sponde del Gange, senza riconoscerlo, il figlio: il figlio invece lo riconosce, e compiuta una magia, scompare in una fitta nebbia. Allora Shantanu intuisce che deve trattarsi di suo figlio e implora la dea Ganga di consegnarglielo: e lei compare col figlio accanto e glielo consegna, per poi sparire e non farsi vedere mai più.
Ora Shantanu è  felice, avendo di nuovo con sé il figlio per salvare il quale lui aveva dovuto rinunciare all’amatissima moglie, e passa così i successivi quattro anni. Poi, un bel giorno, durante una delle sue solite battute di caccia in solitaria, Shantanu è raggiunto da un profumo dolcissimo che aleggia nell’aria:  seguendone la scia, il re giunge al cospetto di una bellissima fanciulla che, interrogata, gli dice di chiamarsi Satyavati e di essere la figlia del capo dei pescatori. L’irresistibile bellezza della fanciulla fa nascere nel re il desiderio di sposarla, per cui, fattosi condurre  al cospetto del padre, gli chiede ufficialmente la mano della figlia: certamente, risponde il padre, a patto però che i figli nati dal loro matrimonio diventino gli eredi al trono. Shantanu non può accettare, poiché esiste già l’erede al trono, è il figlio precedentemente avuto da Ganga, Devavrata (che poi verrà soprannominato Bhishma, “il Terribile”): quindi affranto per l’impossibilità di ottenere Satyavati in moglie, torna alla sua corte, perdendo giorno dopo giorno entusiasmo e interesse per la vita. Ma il figlio Devavrata si accorge del dolore del padre, e dopo una rapida indagine, viene a sapere della sua passione per Satyavati e della richiesta del padre di lei, capo dei pescatori: si impegna allora, con un solenne voto a mantenere tutta la vita una condizione di castità e di rinunciare così a trono e eredi, voto che gli meriterà il soprannome di Bhishma “il Terribile”, poprio per la difficoltà a rimanere fedele ad un tale voto (e lui sempre vi rimarrà). A questo punto il matrimonio può essere compiuto: non tardano a nascere prima Citrangada e poi Vicitravirya, entrambi bellissimi, grandi combattenti e pieni di virtù.
Quando Citrangada raggiunge la maggiore età, il re Shantanu, ormai vecchio, muore lasciando a lui il comando del regno: Citrangada si dimostra un re potentissimo, e estende il suo regno al punto da minacciare il regno dei Vidhyadhara, esseri celesti semi-divini, che dopo una guerra terrificante di quattro anni, riescono ad avere la meglio, uccidendo il valente Citrangada. Poiché Vichitravirya è ancora minorenne, Bhishma si insedia come reggente al suo posto, coadiuvato da Satyavati, seconda moglie del re Shantanu e madre di Vichitravirya, finché sopraggiunta l’età da matrimonio, lo stesso Bhishma gli procura tre meravigliose mogli, Amba, Ambika e Ambalika, le figlie del re di Kashi, che egli stesso rapisce  suscitando le ire di tutti i principi pretendenti che, pur scagliandosi in un feroce combattimento contro di lui, non riescono a strappargli le fanciulle. Dopo aver rispedito indietro Amba, perché già innamorata di un altro re (l’episodio è notoriamente crudele perché questo altro re la rifiuterà in quanto impura, lei morirà e rinascerà con l’obiettivo di uccidere Bhishma, cosa che in effetti poi farà), Bhishma fa celebrare le nozze fra Vichitravirya e le due donne, e consacra il medesimo Vichitravirya re di Hasthinapura. Vichitravirya però, che fino ad allora si era dimostrato molto devoto ed eroico, si lascia andare ad infiniti giochi erotici con le sue due nuove mogli, finché colpito da una malattia fulminante (forse venerea) muore, senza prima aver dato alla luce un erede.
A questo punto la situazione è drammatica e Satyavati, distrutta per la perdita dei suoi due figli (oltre che del marito, lui almeno morto di vecchiaia), è angosciata per la mancanza di un erede al trono, mancanza che significherebbe la scomparsa della dinastia dei Bharata. Disperata chiede a Bhishma di pensarci lui a “seminare il campo” del fratellastro scomparso e così garantire una successione alla dinastia dei Bharata, ma lui si rifiuta in virtù del suo voto precedentemente solennemente fatto di non avere figli: di fronte al suo rifiuto Satyavati propone una soluzione diversa. Anni prima di incontrare Shantanu, Satyavati, mentre svolgeva le sue funzioni di traghettatrice sul fiume Yamuna,  fu amata da un Asceta-Veggente (un Rishi) che rapito dalla sua bellezza la possedette dopo avere creato una fitta nebbia intorno al traghetto: in cambio ottenne  il profumo inebriante che ancora emana dalla sua pelle, laddove prima di accoppiarsi col Veggente era afflitta da una terribile puzza di pesce (lei infatti è in realtà la figlia di un pesce e di un rishi che aveva fatto colare il suo seme appunto in un pesce, adottata poi dal capo dei pescatori). Da questa unione nacque un figlio, Dvaipayana (che è anche l’autore del Mahabharata), che seguendo le indicazioni della stesso Veggente, lei abbandona su un’isola dove lui cresce come il più grande degli asceti; così facendo, lei riacquisisce la sua purezza di vergine. Dvaipayana, prima di scomparire per immergersi nelle sue pratiche ascetiche, solennemente dice alla madre che basterà il solo pensarlo, e lui apparirà in suo soccorso: ebbene, dice Satyavati a Bhishma, il momento per chiamarlo in aiuto è giunto, e se Bhishma acconsente, lei lo chiamerà per “seminare” il campo di Vicitravirya, e così facendo far sopravvivere la gloriosa dinastia dei Bharata.
Bhishma acconsente e così Dvaipayana, evocato dal pensiero della madre, compare: il suo aspetto è terrificante perché totalmente trasfigurato dalle pratiche meditative cui il Veggente si sottopone praticamente dalla nascita, gli occhi sono di brace, la pelle  nera di sporcizia, i capelli una massa informe. Satyavati gli porge la sua richiesta, che lui accetta a patto che le fanciulle passino un anno in atti purificatori: lui è infatti un Veggente e non può essere accostato da donne che non abbiano prima fatto un periodo di penitenza purificatoria. Ma Satyavati non vuole aspettare e prega il Veggente di accoppiarsi al più presto con le due sorelle Ambika e Ambalika: il Veggente acconsente, ammettendo che la pena di accoppiarsi con un uomo dall’aspetto tanto orrido (per le continue meditazioni) varrà loro come atto di suprema ascesi e purificazione. Così il Veggente si accoppia prima con una e poi con l’altra: ma la prima, disgustata, chiude gli occhi e non li riapre durante tutto il rapporto sessuale e per questo suo figlio Dhrtarashtra nascerà cieco; quanto alla seconda, di fronte all’aspetto terrifico del Veggente, sbianca totalmente e per questo il figlio nato da quell’unione sarà pallido, e avrà nome Pandu (che significa appunto: bianco, pallido). Prima che scompaia nuovamente per tornare alle sue pratiche ascetiche intense ed estreme, Satyavati gli chiede di accoppiarsi nuovamente con Ambika: lui acconsente ma lei, disgustata, fa trovare nel suo letto la sua servitrice: il figlio sarà Vidura, zio dei Pandava e dei Kaurava, figlio di una serva e di un Rishi.
I tre vengono allevati da Bhishma, come fossero i suoi figli: tutti e tre si dimostrano uomini eccezionali ma, al momento di scegliere l’erede al trono, fu Pandu ad esser scelto, poiché Dhrtarashtra, seppur fisicamente più prestante (e primogenito), era afflitto da cecità e Vidura era figlio di una serva. Fu sempre Bhishma a preoccuparsi che i tre figliastri si unissero in matrimonio per perpetuare la stirpe dei discendenti di Bharata:  spinge Pandu a recarsi dalla principessa Kunti che deve scegliere il marito, e che vedendolo lo sceglie senza esitazione, e, grazie a ingenti somme di danaro, riesce a ottenere come seconda moglie per Pandu, Madri; per Dhrtarashtra sceglie una regina molto nobile e devota, Gandhari, cui da un veggente venne predetto che sarebbe stata madre di cento figli (famosa per essersi bendata gli occhi in segno di rispetto per il marito cieco senza esserseli mai più sbendati); per Vidura infine, qualche tempo dopo, trova una moglie figlia di un re e di una donna shudra (medesima casta della madre di Vidura), da cui quello ebbe numerosi figli. Dopo che Pandu si fu sposato e si fu goduto per un po’ l’amore delle sue mogli (amore che però non produce figli), partì per una campagna militare trionfale: al suo ritorno l’intero continente è soggiogato e lui dona parte del regno alla nonna Satyavati, a Bhishma, alle due madri,  al fratello cieco, e anche a Vidura, per poi ritirarsi con le due mogli in una foresta, e dedicarsi intensamente alla caccia, sua grande passione.
E’ in questo periodo di permanenza nella foresta che avviene l’episodio della maledizione del cervo-rishi che complica terribilmente la successione di Pandu, e costituisce la premessa per l’origine divina dei cinque fratelli Pandava, protagonisti del Mahabharata. Infatti Pandu uccide un cervo intento ad accoppiarsi, senza alcun rispetto per la sacralità dell’atto erotico: ma la paga cara, poiché in realtà il cervo è un Rishi (o Veggente: ricordo che i Veda sono attribuiti all’opera di Rishi) trasformatosi temporaneamente in animale della foresta per potersi dedicare intensamente all’erotismo con la legittima sposa, tramutatasi anch’essa in cerva, e quindi viene maledetto dal Veggente morente a non poter mai più accoppiarsi, pena la perdita della vita per lui e per chi con lui si è accoppiato. Pandu è disperato, e decide di dedicarsi interamente ad una vita di ascesi e penitenze, rinunciando al trono per sempre: le mogli lo implorano di non eccedere nei propositi di ascesi e di lasciarle stare con lui, poiché in ogni caso se lui le abbandona loro sceglierebbero la morte, mentre se le lascia venire con lui rinunceranno per sempre ai piaceri e lo sosterranno nel suo sforzo ascetico. Pandu accetta e i tre partono per dedicarsi ad escesi e purificazioni continue in un eremo incantato popolato da esseri celesti e semi-divini, di cui diventano subito i favoriti. Un bel giorno però, tutti gli altri abitanti dell’eremo, Perfetti, Semi-dei e altri esseri celesti, decidono di visitare il mondo del puro Brahman e vedendo che Pandu intenderebbe seguirli lo fermano, dicendo che in quella regione nessun essere umano riesce a sopravvivere: a quel punto Pandu è come ricondotto alla realtà e si rende conto che neanche da morto potrà ascendere al paradiso visto che non ha un figlio, conditio sine qua non per l’accesso al paradiso.
Preso dallo sconforto chiede agli esseri celesti lì presenti cosa possa fare per cambiare questa sua terribile situazione che lo priva della possibilità di avere un figlio: e loro rispondono di non preoccuparsi, in quanto suo destino è avere una progenie di figli di origine divina. La notizia, se dona conforto al re, poiché certamente non possono non avverarsi le profezie degli esseri superiori, lo mette in una profonda agitazione, una vera o propria smania di avere degli eredi: si reca quindi da Kunti e le chiede di trovare qualcuno che possa “arare il suo campo” (del resto, aggiunge, anche mio padre fu l’asceta Dvaipayana!). Kunti rimane sconvolta dalla proposta del marito e non può accettare: ne segue uno scambio drammatico in cui Pandu insiste rivelando che nei tempi antichi le donne non dovevano essere fedeli ai mariti ma potevano andare con chi gli pareva (bei tempi!), e che la consuetudine della fedeltà coniugale era cosa recente, da far risalire a Shvetaketu, che vedendo appunto una volta sua madre andare con un altro uomo davanti a suo padre, si offese e impose questa nuova norma (benché il padre gli avesse spiegato che era norma fare così! Erano coppie aperte, evidentemente).
Kunti non sa più che dire (del resto Pandu le ricorda il dovere della moglie di obbedire al marito per farlo felice, ribaltando clamorosamente la frittata della “libertà” coniugale), e quindi, lei, gioca la sua carta: è un segreto che decide di rivelare (seppur solo in parte) al marito. Quando ancora era una fanciulla e si dedicava a ricevere gli ospiti giunti presso la reggia del padre (anche lui putativo, in quanto in verità era uno zio, tale Kuntibhoja, che non poteva avere figli e a cui il suo legittimo padre, tale Shura, l’aveva donata), fu favorita, da un Veggente particolarmente soddisfatto dal suo zelo, di un mantra potentissimo in dono, pronunciando il quale un dio si sarebbe manifestato, l’avrebbe amata e sarebbe scomparso (il veggente evidentemente sapeva che lei un domani ne avrebbe avuto grande bisogno). Quel che Kunti non dice al marito, ma che noi sappiamo perché è raccontato qualche pagina più indietro quando viene raccontata appunto la storia di Kunti, è che lei, che era ancora una fanciulla, appena il Veggente se ne andò, volle provare la potenza del mantra e invocò il Sole:  a quel punto fu troppo tardi per rifiutarsi e si dovette accoppiare col dio Sole (che per altro ne fu felice essendo Kunti di una bellezza eccezionale), dando luogo alla nascita immediata di un bellissimo fanciullo, che lei poi abbandonò, in preda ai rimorsi, in un fiume (di fatto lo mollò nell’acqua, manco in una cesta!), poiché il dio le disse che così facendo avrebbe riconquistato la sua verginità  (il bimbo fu poi raccolto dallo stalliere di Dhrtarashtra e quindi fu ri-immesso nella famiglia, e nella faida: è Karna, grande guerriero che avrà un ruolo di primo piano nello scontro, schierato coi Kaurava e che verrà alla fine ucciso da Arjuna, figlio della sua stessa madre, in uno scontro epocale che coinvolse anche gli dei, fondamentali nel determinare la vittoria di Arjuna).
Pandu ovviamente accetta e suggerisce di invocare il dio della giustizia (il dio Dharma) in modo che nessuno possa trovare da ridire sulla liceità dell’operazione: così Kunti invoca Dharma, si accoppia con lui e un anno dopo nasce il primo dei Pandava, Yudhishthira. La nascita del primo figlio di Pandu e Kunti, mette in agitazione Gandhari, la moglie del fratello cieco di Pandu,  Dhrtarashtra, cui era stata predetta la nascita di cento figli: ma lei era incinta da due anni e nessun bambino era ancora nato. Presa dallo sconforto Gandhari decide di colpirsi, senza che il marito lo sappia, con veemenza il pancione e questo provoca la fuoriuscita di un bolo di carne simile a ferro: quando sta per buttarla via, Dvaipayana (lo stesso che mette incinta Ambika e Ambalika dando luogo al cieco Dhrtarashtra e al pallido Pandu), che le aveva a suo tempo predetto la nascita di cento figli, interviene e le dice come fare. Bisogna dividere quella massa di carne in cento pezzettini piccoli, metterli ognuno in un piccolo vaso di terracotta pieno di burro fuso, sotterrarli e poi aspettare: questo lei fa e in effetti, dopo un anno dalla nascita del cugino Yudhishthira, nasce il primo figlio, il malvagio Duryodhana, il quale, nonostante di lui un oracolo predice chiaramente al padre cieco che sarà causa della distruzione della stirpe (sarà infatti Duryodhana a “spingere” per lo scontro finale coi cugini Pandava), viene risparmiato per il troppo affetto che il padre prova nei confronti del suo primo figlio. Tornando a Pandu, dopo la nascita del primo figlio, viene preso da un intenso desiderio di avere altri figli: prega quindi Kunti di accoppiarsi con un altro dio, e scelgono Vayu per avere un figlio che sia il più forte di tutti; nasce così, nello stesso giorno in cui nasce Duryodhana il malvagio, Bhima, valente guerriero.
Ma Pandu vuole un altro figlio: e convince Kunti a invocare Indra per avere un figlio che sia invincibile in battaglia: e così nasce Arjuna il grande eroe che condurrà i Pandava alla vittoria. Nel frattempo Gandhari ha dato luce ai suoi cento figli a cui si aggiunge una figlia, da lei tanto desiderata, creata con l’avanzo del bolo di carne da cui gli altri cento figli tutti provenivano. Pandu invece è come impazzito: chiede ancora a Kunti di invocare un altro dio ma lei si rifiuta indignata, dicendo che le scritture parlano chiaramente del fatto che una donna che ha figli da più di tre uomini diversi è da considerarsi una donna libera di spirito, ma quella che ne ha con più di quattro una poco di buono (lei in effetti aveva avuto figli con quattro dei: basta!). Viene in soccorso alla smania di Pandu, l’altra moglie, Madri che si rivolge al marito chiedendogli di intercedere presso Kunti per avere “in prestito” il mantra anche lei, e poter così anche lei dare luce a degli eredi di Pandu. Il re non aspettava altro, implora Kunti la quale acconsente; Madri, furba, invoca i Gemelli-divini e così ottiene due figli: Nakula e Sahadeva, gli ultimi dei cinque Pandava. (E’ dopo la nascita di questi cinque figli che Pandu, come ringalluzzito per esser diventato padre, un giorno di primavera trovandosi da solo con Madri non riesce più a trattenere oltre il desiderio e, come dimentico della maledizione subita dal Cervo-Rishi, si accoppia con lei, che invano gli si oppone: Pandu è colto da morte improvvisa e Madri, dopo aver subito le accuse di Kunti che sospetta che lei lo abbia provocato, lo segue sulla pira.)
Così termina questa piccola rassegna delle origini dei protagonisti del Mahabharata, i cinque  fratelli Pandava, figli di due madri e cinque dei,  e i cento Kaurava, nati tutti da un bolo di carne dopo una gravidanza di due anni: direi, per tutti costoro, Pandava e Kaurava, delle origini parecchio intricate!

1 pensiero su “Mahābhārata: I Pandava e i Kaurava, cugini come esattamente?

  1. Lancillotto

    La grande battaglia Indiana risale ai tempi di Re Krishna, ovvero a ben 5.000 anni fà, ovvero al 3.000 – 3200 AVANTI CRISTO.
    Si presume quindi facilmente che tali nascite semi-divine siano di tale periodo, che siano poi state tramandate verbalmente a memoria e poi trascritte più e più volte su foglie di banano secche e poi su carteggi nel 200 D.C. è cosa ininfluente. Chissà quante testimonianze verbal ie scritte sono andate perdute sin da 5000 anni fà ..

    Il sovrapporsi di divinità e il lor entrare in corpi umani prendendo ragione e parte attiva agli eventi umani è cosa che, da esperto e pratico, confermo succeda anche ai ns. giorni.

    Sono fattori che, anche senza mantra, ma dovuti spesso alle sole capacità psichiche e sovrumane degli Avatara (figli ed emissari degli Dei, che sono tantissimi come giustamente conferma l’induismo antico), accadono e ho visto accadere su di me e su molte persone “dotate di poteri e provenienti come me da luoghi ben più alti del piano samsarico”.

    Non mi permetto di giudicare ne l’intromissione dei vari Dei e dei loro figli, mogli e parenti divini che si reincarnano (periodicamente) o che prendono possesso consenziente di un essere senziente umano, ognuno di loro ha un suo obbiettivo ben preciso .. cosa che ho anche io, quindi li comprendo.
    V’è da dire però che, malgrado la buona fede e l’impegno sia di Dei che di Umani, a volte i risultati non sono quelli sperati e non appaiono eccellenti. Anche in questi racconti sacri (e per me ben normali e veritieri) vediamo l’errore di permettere a “coscienze maligne” di reincarnarsi in nuove nascite, apparire e disturbare con la loro malevolenza gli evnti umani, la quiete mondiale e un miglioramento del progredire degli spiriti incarnati in ambito materiale e relativo, cioè su questo piccolo pianeta, sempre in lotta e pieno di contrasti a volte orribili e troppo spesso, come lo stesso Buddha Gotama affermava 2500 anni fà, dolorosi e irrisolvibili, da lasciare per sempre e cancellare.

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