Praticare sanscrito

Negli ultimi 20 anni in italiano si è diffuso l’uso del verbo praticare, per intendere l’introduzione nelle proprie vite di attività che vengono ripetute con costanza, da distinguersi però nettamente sia dallo sport, attività fisica più o meno intensa e ripetitiva, sia dallo studio e in genere dalle attività di tipo intellettuale, prettamente riflessive e astratte, lontane dalla vita pratica.

Rispetto allo sport, la pratica, pur coinvolgendo comunque un aspetto fisico, comporta sempre, e marcatamente, un aspetto interiore, che si sviluppa fra i due poli della spiritualità esistenziale e della cultura.

Rispetto alle attività di tipo intellettuale (studiare, leggere, andare a teatro, al cinema o per musei, ecc.), la pratica, oltre al menzionato lato fisico, comporta un’esplicita e più pressante ricerca di cambiamento, una tendenza della pratica a radicarsi nella vita di tutti i giorni e, soprattutto, una concreta percezione di essere, in prima persona, la materia prima e l’ambito principale della pratica stessa: si pratica “con” se stessi, si è l’oggetto primario della propria pratica, e i progressi che si raggiungono con essa si traducono in termini di miglioramento qualitativo del proprio rapporto con se stessi e con gli altri.

Pratiche per eccellenza, nell’accezione qui accennata, sono lo yoga e la meditazione, nelle sue infinite variazioni, attività alle quali in effetti dobbiamo il merito stesso di aver introdotto in occidente, e in Italia in particolare, il concetto di pratica, diffondendone l’interesse e la presenza sul territorio nazionale attraverso l’opera di persone che si dedicano intensamente alla pratica stessa che diffondono, fino a renderla motore principale della propria vita, testimoniandone così la forza e la positività.

Il sanscrito può essere visto, proposto e vissuto come pratica di studio.

L’aspetto fisico della pratica di studio del sanscrito, pratica che definirei ulteriormente come psico-linguistica, è la necessità di stare seduti a un tavolo concentrati, con carta e penna, senza ausilio di alcuna tecnologia, se non della grammatica di sanscrito (io fornisco mie dispense che possono essere utilizzate come unica grammatica di riferimento).

Scrivere paradigmi, desinenze, situazioni morfologiche, declinazioni, coniugazioni: scrivere per fissare nella memoria, per mettere in pratica le regole imparate, per operare in prima persona il “montaggio” e lo “smontaggio” delle parole fino alle radici: anche questo tipo di scrittura, certamente faticosa (a volte si ritrovano fogli fitti di specchietti di nomi e verbi, di algebre linguistiche che testimoniano lo studio di un dato fenomeno, con cancellature e riscritture numerose), io lo vedo come un aspetto fisico della pratica di studio del sanscrito.

Mantenendo un focus costante sull’atto linguistico, sulla lingua come fenomeno umano al centro di ogni coscienza, conoscenza e relazione, lo studio della grammatica sanscrita è principalmente uno studio di sé, delle proprie categorie di pensiero e in buona misura anche di azione, uno studio che rivela forze e debolezze della mente umana: operando con il sanscrito l’intuito, l’errore, la soluzione, si sfiorano e si intersecano senza mai confondersi.

Il soggetto, l’oggetto, il verbo, la frase, il periodo, la sintassi sono orizzonti interiori e esteriori prima ancora di essere fatti grammaticali.

I miglioramenti che la pratica del sanscrito porta, da subito, hanno a che fare con l’ambito della cultura: il sanscrito potenzia l’efficenza intellettiva, sviluppando un rapporto molto più attento e profondo con le parole lette, scritte e dette.

Come pratica di studio, il sanscrito costringe ad una grande precisione in un regno che solitamente lasciamo in una dimensione più che altro istintiva, chiedendoci lo sforzo di relazionarci alle lettere e alle parole con l’attitudine che di solito riserviamo ai numeri e alle cifre.

Richiedendo sempre un’attenzione rivolta a più piani (fonetico, grammaticale, semantico, ognuno regolato nel dettaglio dalla grammatica), costituisce infine una palestra utilissima per potenziare le proprie tecniche di studio.

Va da sé che, praticando il sanscrito, di fatto lo si studia, e si compiono quei passi necessari per eventualmente includere fonti letterarie indiane nei propri orizzonti di ricerca scientifica e spirituale, oltre al fatto, non trascurabile, che ci si ritrova già immessi in un filone di conoscenza di matrice non-occidentale.

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