Il Mettāsutta o “Discorso sull’apertura amichevole”

Il “Discorso sull’apertura amichevole” (o “Discorso sull’apertura benevolente”) fa parte del Canone Pāli, in particolare del Suttapiṭaka o “Cesta dei discorsi”, dove lo troviamo due volte, i.e. nella sezione Khuddakanikāya o “Mucchio dei testi brevi” (anche il Dhammapada, di cui ho recentemente tradotto una selezione di versi sublimi fa parte del Khuddakanikāya; vedi Dal Dhammapada) dove compare due volte, in Khuddakapāṭha 9 e in Suttanipāta, I, 8.
Il Mettāsutta è un discorso tanto famoso quanto importante da un punto di vista dottrinale, ed è infatti per molti aspetti illuminante o comunque parecchio ispirante: la mettā (oggetto del Mettāsutta) è infatti l’antidoto contro l’avversione (dosa in Pāli, traducibile con avversione, odio, repulsione; sancrito dveṣa), uno dei principali ostacoli (spesso citato insieme a raga, l’attrazione erotica, e moha, l’illusione) sulla via dell’Illuminazione.
Il dosa, che si manifesta con la repulsione, la paura e l’aggressività per ciò che ci arreca dolore e/o ci scombussola la vita, se non contrastato con la pratica della mettā (è questo il punto rilevante a livello dottrinale) moltiplica l’effetto del dolore provato, fino a renderlo soverchiante e paralizzante: il dosa infatti, se non contrastato dalla mettā, prende facilmente i connotati dell’ossessione da cui non si riesce a uscire, che non ci permette di pensare ad altro.
Piuttosto che con “amicizia universale” o, peggio ancora, con “amore universale”, preferisco tradurre il termine mettā con “apertura amichevole verso l’altro” (persona o fenomeno), apertura che deve essere esercitata senza uno specifico motivo o obiettivo oltre all’esercizio della mettā stessa, anche cioè se “l’altro” (essere vivente o emozione o situazione o realtà che sia) dovesse risultare comunque, nonostante l’apertura amichevole, disgustoso, odioso, e/o senza speranze di cambiamento — cosa, ahimè, non così rara del resto: basti pensare per esempio alla morte, che per definizione non si può “attenuare” o sperare che non arrivi in virtù della nostra mettā, eppure dobbiamo aprirci ad essa amichevolmente, per non farci prendere dal panico e/o “anticiparla” e così facendo ingigantire la sua presa sulla vita che possiamo invece vivere finché non siamo morti; o più semplicemente si pensi a una persona che ci ha fatto o che ci fa del male ma che non ha, e probabilmente mai svilupperà, i mezzi morali e intellettuali per cambiare, o addirittura che non ha neanche mai capito di farci del male e che sarà quindi sempre per noi perniciosa: anche (o meglio: in particolare) a una siffatta persona dobbiamo rivolgere la nostra “apertura amichevole”, non perché ci aspettiamo che possa avere su di lei un effetto diretto, ma poiché contiamo sull’effetto benefico della mettā stessa su chi la esercita in prima persona, e cioè noi stessi: la morte resta la morte, ma è meno angosciante e terrorizzante se “osservata” con mettā; la persona che ci fa del male resta tale e continuerà con ogni probabilità a volerci fare del male, e magari ci riuscirà anche, ma il fatto che non sviluppiamo né svilupperemo, grazie alla mettā, avversione nei suoi confronti, limita di molto il reale impatto del male che ci fa, ci ha fatto e ci farà.
A differenza dell’amicizia o dell’amore, la mettā non comporta dunque né si basa su alcuna forma di attrazione, fisica o psichica che sia: la mettā si fonda invece sulla presa di coscienza che l’avversione e il disgusto nei confronti di ciò che ci causa dolore (essere vivente, situazione, pensiero o realtà che sia), moltiplicando di molto il dolore percepito, finisce per bloccarci del tutto o per trascinarci in una situazione ancora peggiore, rendendo impossibile ogni progresso sulla via che porta alla liberazione, sia che con ciò si intenda la Liberazione finale — l’ineffabile nibbāna –, sia che si intenda solo un liberarsi dall’effetto devastante del dosa (odio, avversione, repulsione) provato nei confronti di uno specifico essere vivente (o situazione o emozione o realtà) che ci ha fatto, ci fa o ci farà del male.
[Non è questo il luogo per sviscerare la differenza fra mettā e karuṇā, altro caposaldo dell’etica buddista, traducibile con compassione: basti dire che non differiscono più di tanto l’una dall’altra, sembrerebbe trattarsi (quando non sono usati sostanzialmente come sinonimi) più di una differenza fra uno stato d’animo di fondo, la mettā; e l’impeto ad agire, dove è possibile, per alleviare il dolore altrui (o anche proprio), la karuṇā (dietro karuṇā, termine sia Pāli che sanscrito, c’è la radice sanscrita kṛ che significa fare, agire; mettā è legato al sanscrito mitra, amico, di cui è l’astratto, quindi significa “amicizia”, uno stato d’animo positivo e aperto che però non si traduce per forza in azione.)]
Di seguito la traduzione in italiano (cui segue il testo in Pāli) di questo sutta, che pubblico qui perché spero possa essere d’aiuto anche ai lettori di questo post, dato che motivi di avversione ce ne abbiamo tutti quanti (si tratta del resto di un discorso che ha certamente aiutato migliaia e migliaia, o più probabilmente milioni, di persone in tutto il mondo, da quando, secondo quanto racconta il commento, il Buddha lo pronunciò per incoraggiare 500 monaci da lui recatisi per chiedergli come proteggersi da alcune divinità ostili presenti nella foresta in cui si erano stabiliti per meditare durante la stagione delle piogge.)

“Il Discorso (sutta) sull’apertura amichevole verso il prossimo”

Chi è abile a cogliere quel che è vantaggioso, dopo aver capito l’estinzione (lett. il luogo pacifico), qualunque cosa debba fare si dimostri capace, onesto, perfettamente corretto, di parole gentili, delicato, non arrogante, perfettamente soddisfatto, appagato anche di poca elemosina (lett. facile da mantenere), libero da impegni mondani (lett. con poco da fare), frugale, coi sensi pacificati, prudente, non impudente, non coinvolto nelle faccende delle famiglie [da cui riceve l’elemosina] e incapace di qualunque piccola infrazione a causa della quale possano poi altri saggi redarguirlo.
“Siano felici o in pace! Possano tutti gli esseri viventi essere intimamente felici! Qualsiasi essere vivente, capace di spostamento o immobile, senza eccezioni, sia esso lungo, grosso, medio, corto, piccolo o grande, che lo si veda o non lo si veda, che abiti lontano o per nulla lontano, che sia già nato o sia in procinto di nascere: che tutti gli esseri viventi possano essere intimamente felici!
Che nessuno umili il prossimo, che nessuno da nessuna parte e in nessun modo disprezzi il prossimo! Che il senso di avversione nato dall’ira non faccia volere ad alcuno il male di qualcun altro!
Come una madre con il proprio figlio con la sua stessa vita proteggerebbe il suo unico figlio, così verso tutti gli esseri renda il suo cuore illimitato: che renda il suo cuore senza limiti nella benevolenza verso tutti gli esseri — in alto, in basso, nel mezzo — un cuore senza vincoli, senza odio, senza inimicizia!
Quando sta fermo in piedi, quando si muove, quando è seduto o quando è sdraiato, fintanto che riesce a tenere lontano il torpore, deve permanere in questa meditazione: dicono che questa è la condizione suprema. E non seguendo alcuna ideologia, virtuoso, dotato di retta visione, avendo rigettato il desiderio per i piaceri sensuali, senz’altro non rinasce (lett. ritorna in un utero)”.

(Questo il testo in Pāli)
Karaṇīyam atthakusalena
yan taṁ santaṁ padaṁ abhisamecca
sakko ujū ca sūjū ca
suvaco c’assa mudu anatimānī
santussako ca subharo ca
appakicco ca sallahukavutti
santindriyo ca nipako ca
appagabbho kulesu ananugiddho
na ca khuddaṁ samācare kiñci
yena viññū pare upavadeyyuṁ
sukhino vā khemino hontu
sabbe sattā bhavantu sukhit’attā
Ye keci pāṇabhūt’atthi
tasā vā thāvarā vā anavasesā
dīgha vā ye mahantā vā
majjhimā rassakā aṇukathūlā
diṭṭhā vā ye vā addiṭṭhā
ye ca dūre vasanti avidūre
bhūtā vā sambhavesī vā
sabbe sattā bhavantu sukhit’attā
Na paro paraṁ nikubbetha
nâtimaññetha katthaci naṁ kañci
vyārosanā paṭighasaññā
nâññamaññassa dukkham iccheyya
Mātā yathā niyaṁ puttaṁ
āyusā eka,puttam anurakkhe
evam pi sabbabhūtesu
mānasam bhāvaye aparimāṇaṁ
Mettañ ca sabbalokasmiṁ
mānasam bhāvaye aparimāṇaṁ
uddhaṁ adho ca tiriyañ
asambādhaṁ averaṁ asapattaṁ
Tiṭṭhaṁ caraṁ nisinno vā
sayāno vā yāvat’assa vigatamiddho
etaṁ satiṁ adhiṭṭheyya
brahmam etaṁ vihāraṁ idha-m-āhu
Diṭṭhiñ ca anupagamma
sīlavā dassanena sampanno
kāmesu vineyya gedhaṁ
na hi jātu gabbhaseyyaṁ punāreti

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