L’illusione come dono divino (Bhagavadgītā, cap. XI)

Il capitolo XI della Bhagavadgītā è molto famoso perché in esso Arjuna, dopo averglielo esplicitamente chiesto, ottiene da Kr̥ṣṇa la possibilità di contemplare la sua (di Kr̥ṣṇa) forma suprema (rūpam aiśvaram), forma di cui il dio ha ripetutamente parlato nei capitoli precedenti.
Perché ciò sia possibile, prima di tutto Kr̥ṣṇa dona ad Arjuna una vista divina (divyaṃ cakṣus, XI, 8), senza la quale egli non potrebbe sopportare la potenza di una tale visione, cui, ci viene detto più avanti, ambiscono continuamente anche gli dei (devā apy asya rūpasya nityaṃ darśanakāṅkṣiṇaḥ XI, 52), forse invano per altro dato che Kr̥ṣṇa specifica poi ad Arjuna di avergli mostrato una forma di sé mai vista prima da nessuno (mayā … idaṃ rūpam darśitam…yan me tvadanyena na dr̥ṣṭapūrvam, XI, 47), a meno che non s’intenda mai vista prima da nessun essere umano (ma più volte nella Bhagavadgītā viene detto che gli dei non conoscono Kr̥ṣṇa perché ad essi di molto precedente e superiore, quindi è probabile che in effetti neanche gli dei abbiano mai potuto vedere tale forma suprema di Kr̥ṣṇa).
Se all’inizio, nella descrizione del dio nella sua forma suprema, prevalgono gli aspetti di molteplicità (“dagli infiniti occhi e volti”, v. 10), di meraviglia (“il dio fatto di tutte le meraviglie”, v.11) di onnicomprensività (“con braccia infinite, il sole e la luna come occhi”, v. 19), di infinitezza (“dalle infinite forme” v. 16; “senza inizio, né mezzo, né fine” v. 19) e di luce (“il fulgore di mille soli sorti in cielo”, v 12; “il volto simile a un fuoco in fiamme che riscalda col proprio splendore tutto questo universo” v.19), da un certo punto in poi della descrizione prevale nettamente l’aspetto terrifico e distruttore di tale divinità suprema.
Vengono usati aggettivi come ugra “terrifico” riferito al dio, e pravyathita “sconvolto”, bhīta “spaventato”, vismita “stupito” riferiti alle creature e al mondo intero, e Arjuna di fronte a uno spettacolo talmente terrificante (il testo ha: “Dopo aver visto le tue fauci, fitte di denti e simili al fuoco del tempo”) altro non può fare che chiedere al dio di placarsi perché non riesce a trovare alcun luogo dove rifugiarsi (v. 25).
In particolare Arjuna vede tutti gli eroi del Mahābhārata precipitarsi nelle bocche del dio che li divora avidamente: famose le immagini di alcuni eroi che rimangono incastrati fra i denti di queste mostruose bocche con le teste fracassate (“kecid vilagnā daśanāntareṣu saṃdr̥śyante cūrṇitair uttamāṅgaiḥ”, v. 27) e del dio che lecca ripetutamente (“lelihyase”) i mondi da ogni parte mentre se li divora (v. 30).
Interrogato su chi realmente egli sia, Kr̥ṣṇa risponde (vv. 32-33): “Io sono l’Antico, il tempo che distrugge l’universo, intento qui a spazzare via tutti gli esseri viventi: anche a prescindere dal tuo intervento questi soldati schierati in battaglia cesseranno di esistere! Perciò alzati, ottieni gloria e uccidi i tuoi nemici per goderti il prospero regno: sono io ad avere già ucciso tutti costoro; tu, o Arjuna, sii solo uno strumento (nimittamātra)”.
Di fronte a questa rivelazione Arjuna, terrorizzato, prima tesse le lodi del dio, poi si scusa se nel passato gli si è rivolto in maniera troppo amichevole, infine gli chiede di essere indulgente “come il padre col figlio, come l’amico con l’amico, come l’amato con l’amata” (v. 44) e di mostrargli nuovamente la sua solita forma amichevole (vv. 45-46).
Kr̥ṣṇa, dopo aver detto ad Arjuna di avergli rivelato questa sua forma suprema (paraṃ rūpam) perché ben disposto verso di lui, forma suprema che non si può vedere né grazie ai veda, né grazie al tapas, né grazie alle donazioni o ai sacrifici, ma solo grazie alla devozione a Kr̥ṣṇa stesso, gli intima di non avere paura di questa sua forma terribile (rūpaṃ ghoram) e riprende poi le sue sembianze umane di prode auriga e fedele amico (e il capitolo volge rapidamente al termine).
Attraverso la descrizione della visione, concessa ad Arjuna da Kr̥ṣṇa, della Realtà Superiore, così diversa dalla realtà per come la percepiamo noi, e così agghiacciante (per non dire mostruosa), il capitolo XI della Bhagavadgītā, mettendoci di fronte a un mistero così fitto, paradossalmente ci spinge a vivere la nostra “piccola” e dolorosa vita senza paura, contando sulla potenza di Kr̥ṣṇa e sui doni che egli elargisce a piene mani a tutti gli uomini meritevoli. D’altra parte, almeno secondo me, la terrificante descrizione della Realtà Superiore ci ricorda che uno dei doni più preziosi per noi è proprio quel coacervo di sentimenti, emozioni, credo e passioni (qualunque, in definitiva, esse siano) di cui consta l’illusione esistenziale, senza cui non sarebbe possibile neanche “reggerla” la vita, figuriamoci gioirne, dominata e condizionata com’è dal dolore, dall’insensatezza e dalla morte.

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