Pronunciare il sanscrito: l’alfabeto, la trascrizione (Harvard-Kyoto e coi diacritici) e la pronuncia delle parole

Il sanscrito è l’unica lingua antica di cui conosciamo con esattezza la pronuncia, grazie a dettagliate descrizioni della stessa, che troviamo in fonti antiche (sicuramente risalenti a qualche seolo a. C.: quanti esattamente, è difficile dirlo).
Pronunciare correttamente il sanscrito è estremamente facile: magari si potessero pronunciare con la stessa facilità l’inglese o il francese!
E’ fondamentale, per dotarsi di una corretta pronuncia del sanscrito, prima di tutto praticare tutte le lettere dell’alfabeto, e farlo rigorosamente ad alta voce, e quando si sono acquisiti tutti i suoni del sanscrito (come fossero i suoni di uno strumento) passare a pronunciare le singole parole, e infine praticare la lettura di frasi.
Nel presente post, presentando i singoli suoni del sanscrito, indicando gli esercizi necessari per imparare a pronunciarli, e fornendo le regole per la corretta pronuncia delle parole, voglio fornire gli strumenti necessari affinché qualunque parlante italiano possa arrivare a pronunciare correttamente il sanscrito.
Il motivo della sostanziale facilità a pronunciare il sanscrito classico è presto detto: i suoni vocalici in sanscrito sono solo 14 (che si riducono, assimilando le brevi e le lunghe, a 9), e le consonanti 33 (20 occlusive semplici, 5 occlusive nasali, 4 semi-vocali, tre sibilanti e l’aspirata h). Si aggiungano due nasalizzazioni dei suoni vocalici (cioè un terminare il suono vocalico in una nasale inarticolata; le due nasalizzazioni sono leggermente diverse fra loro, ma di fatto sono assimilabili una all’altra) e un’aspirazione dei suoni vocalici (cioè un terminare il suono vocalico in una aspirata aspra), e si avranno tutti i possibili suoni del sanscrito, cioè 51 (quando si sente parlare di 50 suoni, è perché le due nasalizzazioni della vocale di cui sopra vengono assimilate l’una all’altra; quando invece si dice che il sanscrito ha 52 suoni, è perché si considera il congiunto consonantico jJa in Harvard-Kyoto [Harvard-Kyoto è un famoso metodo di trascrizione del sanscrito, che sfrutta le maiuscole per evitare i segni diacritici, cioè i vari puntini, accenti e trattini tipici invece della trascrizione detta appunto con diacritici; pur non presentando sistematicamente i due metodi di trascrizione, essi vengono utilizzati nel presente post mano mano che si presentano i suoni del sanscrito, nella convinzione e nella speranza che non sarà cosa troppo ardua capirne empiricamente i principi] o jña in trascrizione con diacritici, come un suono a parte, cosa che io non faccio, nonostante in effetti esista anche chi pronuncia il congiunto jJa, come gJa, in trascrizione coi diacritici gña, o addirittura dhña; io invece, seguendo l’insegnamento che ho ricevuto sia nelle università che ho frequentato in Europa, sia in India dal Pandit Vagish Shastri, suggerisco di pronunciare il composto jJa, o jña, esattamente come è scritto).
Si noti en passant che la pronuncia del vedico, o sanscrito vedico che dir si voglia, è invece un’altra storia (ed è più complicata), sia perché ha qualche suono in più, sia soprattutto poiché in esso esistono anche 3 accenti tonali, che comportano 3 modificazioni del tono della voce — che può essere più alta, più bassa o intermedia –, accenti che bisogna saper apporre su ogni parola a seconda della sequenza di parole con le quali si ha a che fare; ma il sanscrito classico è invece monotonale, e le parole hanno ognuna solo un accento tonico, come l’italiano per intendersi (alla fine del presente post trovate le regole per determinare dove cade l’accento tonico delle parole).
Ma torniamo al sanscrito classico: se si eccettua la differenza fra vocali brevi e vocali lunghe, che tranne che nel caso della a (dove la breve oltre a durare meno della lunga è anche un po’ più chiusa; vedi oltre), è una differenza che si limita alla durata (e in particolare la lunga deve durare il doppio della breve), di tutti i suoni del sanscrito solo le occlusive aspirate e le cosiddette retroflesse sono sconosciute a noi parlanti italiani (in verità le occlusive aspirate esistono in alcuni dialetti, per esempio il calabrese, e le retroflesse, o dei suoni estremamente simili ad esse, esistono in siciliano).
Quanto alle occlusive aspirate, chiamate in sanscrito mahAprANa, o in trascrizione coi diacritici mahāprāṇa, cioè “dal grande fiato”, esse si pronunciano esattamente come le occlusive semplici o non-aspirate (in sanscrito alpaprANa, in trascrizione coi diacritici alpaprāṇa, o “dal piccolo fiato”), ma con una maggiore emissione di fiato, che si ottiene con un piccolo colpo di diaframma.
Per chi non ricordasse cosa sono le occlusive, esse sono quelle consonanti che si pronunciano occludendo a livello di un punto di articolazione: per esempio, se prendiamo il punto di articolazione che produce le labiali, che sono evidentemente le labbra, i suoni p e b rappresentano le due occlusive. Come si può notare pronunciando una p e una b ad alta voce, esse comportano la chiusura delle labbra, senza la quale i due suoni considerati non possono essere pronunciati, da cui il nome, per questo tipo di consonante, di occlusive.
D’altra parte, se poniamo una mano di fronte alla bocca, notiamo come una piccola quantità di fiato accompagna l’emissione sia di p che di b. Ora, per pronunciare correttamente le corrispondenti mahAprANa, in trascrizione coi diacritici mahāprāṇa, (in italiano, aspirate), basta emettere una maggiore quantità di fiato, senza con ciò alterare la qualità delle occlusive.
L’esercizio che io suggerisco ai miei allievi per imparare a pronunciare correttamente le aspirate, consiste nell’accostare il palmo di una mano alla bocca, e pronunciare appunto le aspirate in modo tale che si senta fisicamente l’impatto della maggiore quantità di fiato emessa: in particolare si pronunci prima l’occlusiva semplice, per esempio una t, e poi di seguito la corrispondente aspirata, trascritta, in entrambi i metodi, th. La pronuncia è corretta quando l’aspirata risulta chiaramente produrre, sul palmo della mano posto di fronte alla bocca, una maggiore quantità di fiato rispetto alla non-aspirata, maggiore quantità di fiato che si traduce in un maggior impatto fisico di aria sul palmo della mano.
L’importante, come detto, è che la qualità del suono, fra l’occlusiva semplice e quella aspirata, rimanga la stessa, e cambi solo la quantità di fiato emessa pronunciandola. In particolare, bisogna badare a che non muti, perdendo forza, quindi “aprendosi” o rilassandosi, l’occlusione a livello del punto articolatorio: quindi la th non deve diventare come una th inglese per intendersi, ma rimanere altrettanto occlusiva (se così si può dire) della t italiana di una parola come torta o torre o tazza. D’altra parte, e qui sta la relativa difficoltà della cosa, non bisogna far seguire l’aspirazione all’occlusiva, ma far in modo che essa venga pronunciata insieme all’occlusiva: non si deve, in altre parole, pronunciare t-h, o d-h (con il trattino a esprimere appunto questo leggero sfasamento dei due suoni, sfasamento che va evitato) ma “direttamente”, in un colpo solo th o dh.
Di fatto, per pronunciare correttamente le occlusive aspirate, bisogna pronunciarle, come detto, con un piccolo colpo di diaframma che accompagni la pronuncia dell’occlusiva, colpo di diaframma che causa appunto la maggiore emissione di fiato chiaramente percepita sul palmo della mano apposto di fronte alla bocca.
Venendo ora alle retroflesse, che come detto è l’altro aspetto che può essere problematico nella pronuncia del sanscrito per i parlanti italiano, in quanto esse in italiano non esistono, è molto importante “trovare” con chiarezza il punto di articolazione, cioè il punto nel proprio cavo orale che dà origine alle retroflesse.
Per fare questo, io suggerisco di partire da due punti di articolazione a noi ben noti, e cioè il palato duro, sul quale si pronunciano le palatali, e gli alveoli dentali, su cui si pronunciano le dentali. Pronunciamo per esempio (sempre ad alta voce, non solo mentalmente, altrimenti l’esercizio è inutile) l’occlusiva palatale aspra c (quella dell’italiano ciao), e l’occlusiva dentale t (quella dell’italiano torta) e facciamolo diverse volte: c, t; c, t; c, t; c, t; c, t; c, t; c, t; c, t.
Notiamo come pronunciando una c la lingua “batta” (occludendo il punto di articolazione) sul palato duro (c infatti è un’occlusiva palatale), e come invece, nel pronunciare t, la lingua “batta” sugli alveoli dentali (t, come detto, è invece un’occlusiva dentale; sia c che t sono occlusive aspre: sulla differenza fra occlusive aspre e occlusive dolci vedi oltre).
Entrambi questi suoni si pronunciano occludendo con la punta della lingua, in particolare la t con l’estremità della punta della lingua, mentre c con la parte superiore di essa. Il punto di articolazione delle retroflesse si trova alla stessa distanza che separa il punto di articolazione delle dentali da quello delle palatali, ma spostando la lingua indietro, invece che in avanti. Tale punto, e questa è la cosa più importante (che spiega anche il nome che si dà a questi suoni), si deve però “azionare” con la parte inferiore della punta della lingua, quindi capovolgendo e arcuando la lingua all’indietro.
Si provi a pronunciare in tal modo l’occlusiva semplice T (o ṭ, in trascrizione con i diacritici): ne deve risultare un suono leggermente ovattato, perché appunto prodotto nella parte più interna del cavo orale, in particolare all’inizio al palato molle, dove appunto è ubicato il punto di articolazione su cui si devono produrre tutte le retroflesse, e che conferisce la qualità meno distinta, nel senso appunto più ovattata, alla serie delle retroflesse.
Prima di esaminare tutti i suoni retroflessi, cioè tutte le lettere dell’alfabeto che si producono intorno al punto di articolazione testé messo in luce, situato all’inizio del palato molle e che deve essere raggiunto dalla parte sottostante della punta della lingua tenuta per così dire arricciata all’indietro, vorrei prendere in esame le cinque occlusive nasali, che spesso disorientano il principiante.
Infatti, mentre in italiano noi abbiamo due sole lettere per indicare le occlusive nasali e cioè n e m, in sanscrito ce ne sono ben cinque, corrispondenti ai cinque punti articolatori, e cioè la gola, il palato duro, il palato molle (il punto di articolazione che in italiano non utilizziamo e che dà luogo alle retroflesse), gli alveoli dentali e le labbra. Il fatto è che la nasale (o meglio l’occlusiva nasale), come per altro anche tutte le altre tipologie di lettere dell’alfabeto sanscrito (che sono le vocali, le occlusive, appunto le nasali, le semivocali, le sibilanti e l’aspirata), corrisponde a un modo specifico per utilizzare ogni punto di articolazione, potremmo dire cioè a un modo specifico di “suonare” il punto di articolazione, cioè, nel caso delle nasali, di nasalizzarlo. E la stessa cosa avviene, si badi bene, in italiano, ma l’alfabeto italiano, cioè la sua grafia, in maniera meno dettagliata della grafia del sanscrito, con la sola lettera n registra tre suoni diversi, cioè la nasale gutturale, quella palatale e quella dentale, mentre affida alla m il compito di trascrivere la nasale labiale (in italiano i punti di articolazione sono solo quattro e cioè la gola, che dà luogo, come in sanscrito, alle gutturali, il palato duro, che dà luogo, come in sanscrito, alle palatali, gli alveoli dentali che danno luogo, come in sanscrito, alle dentali, e le labbra che danno luogo, come in sanscrito, alle labiali; come detto il sanscrito aggiunge a questi il palato molle che dà luogo alle retroflesse).
Ma torniamo alle occlusive dentali e in particolare al fatto che la n italiana esprime in realtà tre diversi suoni dentali. Prendiamo per esempio le parole italiane panca, pancia e mente. Pronunciando con attenzione queste tre parole risulta evidente che i suoni espressi graficamente dalla stessa lettera, n, sono in realtà diversi fra loro: in panca, essa esprime la nasale gutturale (si provi ad isolare il suono espresso da n in tale parola e si noterà che avviene un’occlusione a livello della gola oltre ovviamente a una nasalizzazione, cioè a un far risuonare il suono nel naso); in pancia la n esprime invece la nasale palatale (e di nuovo isolando il suono espresso dalla n in questa parola si noterà che per emetterlo la lingua deve occludere a livello del palato duro, cioè deve appoggiarsi sul palato duro, come avviene in ogni occlusiva palatale); e in mente la n esprime la nasale dentale (in questo caso la lingua occlude a livello degli alveoli dentali, come avviene in ogni occlusiva dentale).
Il sanscrito, più preciso nella trascrizione dei suoni, affida a tre diversi segni l’espressione di queste tre diverse nasali: la nasale gutturale si trascrive in Harvard-Kyoto con la lettera G (con il sistema di trascrizione in alfabeto latino coi diacritici, ṅ), come per esempio nella parola aGka, grembo (in alfabeto latino coi diacritici, aṅka); la nasale palatale è trascritta invece in Harvard-Kyoto con la lettera J, come per esempio nella parola paJca, cinque (in alfabeto latino coi diacritici, pañca); la nasale dentale è trascritta in Harvard-Kyoto con la lettera n, come per esempio nella parola anta, fine (scritta allo stesso modo nella trascrizione in alfabeto latino coi diacritici). Ad esse si aggiunge in sanscrito la nasale retroflessa, trascritta in Harvard-Kyoto con la lettera N, come per esempio nella parola aNu, atomo (trascritta in alfabeto latino coi diacritici, aṇu). Invece, sia in italiano che in sanscrito, la nasale labiale si trascrive (sia in Harvard-Kyoto che in alfabeto latino coi diacritici) con la lettera m, come nella parola tamas, oscurità.
In altre parole, le cinque nasali del sanscrito, che come detto spesso sconcertano, o addirittura spaventano, il principiante, non sono altro che una precisa trascrizione dei suoni nasali prodotti in corrispondenza dei cinque punti di articolazione, e per riprodurli basta “azionare” in contemporanea un punto di articolazione e il naso, esattamente come facciamo pronunciando le parole poco sopra menzionate.
Torniamo adesso alle retroflesse, per vedere nel dettaglio tutte le lettere che fanno parte di questo gruppo.
Come detto, il sanscrito ha due vocali retroflesse (che sono poi una sola se si assimila la breve alla lunga), quattro occlusive pure e una occlusiva nasale, e due consonanti non occlusive, e cioè una semivocale e una sibilante. Ognuna di queste lettere si produce sul punto di articolazione tipico delle retroflesse, e cioè il palato molle, sempre raggiunto con la parte inferiore della punta della lingua arcuata (o arricciata) all’indietro.
In particolare le due vocali, una breve e una lunga, trascritte rispettivamente in Harvard-Kyoto con R e RR (in alfabeto latino coi diacritici con ṛ e ṝ, cioè rispettivamente con una erre con un puntino sotto e una erre con un puntino sotto e un trattino orizzontale sopra), si pronunciano come un normale r, ma appunto prodotta all’inizio del palato molle e con la lingua nella solita posizione tipica delle retroflesse. In molti manuali si dice che al suono della r (pronunciata ovviamente sul palato molle, non, come in italiano, sugli alveoli dentali) si debba aggiungere una sfumatura di i (in India, la si sente pronunciare anche con una sfumatura di u): personalmente non lo faccio, completando, per così dire, il suono della vocale retroflessa con un suono vocalico indistinto estremamente chiuso (perché così mi è stato insegnato da tutti gli insegnanti che ho avuto, incluso il Pandit Vagish Shastri). Per esempio pronunciando il tema kRta (kṛta col sistema dei diacritici), stato fatto (participio passato passivo dalla radice kṛ, fare), non dico assolutamente “krita” ma appunto “krta”: l’importante, a mio avviso, è far sentire bene che si tratta di un suono retroflesso, poggiando la lingua arcuata all’indietro all’inizio del palato molle.
Continuando la rassegna dei suoni retroflessi, seguendo l’ordine alfabetico, incontriamo le quattro occlusive pure e l’occlusiva nasale. Come tutti i cinque gruppi di occlusive e nasali (corrispondenti ai cinque punti di articolazione) l’ordine alfabetico delle occlusive retroflesse è l’aspra semplice (T in Harvard-Kyoto, ṭ coi diacritici), l’aspra aspirata (Th in Harvard-Kyoto e ṭh coi diacritici), la dolce semplice (D in Harvard-Kyoto, ḍ coi diacritici), la dolce aspirata (Dh in Harvard-Kyoto, ḍh coi diacritici) e la nasale (N in Harvard-Kyoto, ṇ coi diacritici).
Completano il quadro delle retroflesse due consonanti non-occlusive, cioè prodotte senza occludere il punto di articolazione, e in particolare la consonante, detta semivocale, r (che bisogna stare attenti a pronunciare, ovviamente, sul palato molle e non, come in italiano, sugli alveoli dentali!), come nel tema rati, godimento (scritto allo stesso modo in Harvard-Kyoto e nel sistema di trascrizione coi diacritici); e la consonante sibilante, presente per esempio nel tema viSa, veleno (coi diacritici viṣa).
Riguardo alla pronuncia della sibilante, conviene prendere in esame le altre due sibilanti del sanscrito, la palatale e la dentale, in quanto presenti anche in italiano.
La sibilante palatale, trascritta in Harvard-Kyoto z e coi diacritici ś, equivale al suono sc della parola italiana scivolo, mentre la sibilante dentale, trascritta, sia in Harvard-Kyoto che nel sistema di trascrizione coi diacritici, con una s, equivale al suono s della parola italiana sole.
Tutte e tre le sibilanti del sanscrito (in ordine alfabetico: la palatale, la retroflessa e la dentale) sono dunque aspre (in sanscrito non esistono sibilanti dolci, equivalenti cioè alla s della parola italiana rosa o alla j del francese jeux, gioco, o del pronome di prima persona francese je), e si producono avvicinando la lingua al punto di articolazione e facendo appunto sibilare, cioè emettendo una buona quantità di fiato (si provi a pronunciare isolata la s di sole o la sc di scivolo con il palmo della mano davanti alla bocca per rendersi conto di tale maggiore emissione di fiato che caratterizza le sibilanti rispetto alle altre occlusive, a parte ovviamente le occlusive aspirate).
Prima di passare in rassegna gli altri suoni dell’alfabeto sanscrito, vorrei spendere due parole per chiarire la differenza fra una consonante aspra e una consonante dolce.
Si provi a pronunciare in sequenza, per esempio, ripetendole più volte, la coppia di occlusive t-d e p-b, rispettivamente le occlusive dentali aspra e dolce, e le occlusive labiali aspra e dolce. Si noterà che pronunciando t e p (le aspre) la lingua nel caso di t e le labbra nel caso di p, rispetto alle corrispondenti dolci d e b, risultano più tese (o più dure; un altro modo per chiamare le aspre è infatti dure, soprattutto in inglese dove vengono chiamate hard, oltre che sorde o mute: le consonanti aspre possono quindi anche essere chiamate dure, sorde o mute), mentre pronunciando d e b, cioè le dolci, lingua e labbra risultano più morbide (di nuovo sinonimi di dolci sono morbide, termine usato soprattutto in inglese dove le dolci vengono chiamate solitamente soft, e sonore).
Empiricamente, per capire se una occlusiva è sorda o sonora, pronunciandola ci si deve chiedere: “potrei pronunciare questa lettera tendendo di più il punto di articolazione?” se la risposta è sì, allora si tratta di una dolce, se la risposta è no, si tratta di una aspra. Si provi pronunciando k (la sorda gutturale equivalente al suono espresso dalla c dell’italiano casa), c (la sorda palatale corrispondente all’italiano cielo), t e p: si noterà che il punto di articolazione (o la lingua nel caso di c e t) sono appunto tese in sommo grado. Rilassando il punto di articolazione o la lingua produrremmo infatti le corrispondenti dolci, e cioè g (dell’italiano gola), j (dell’italiano gioia), d e b.
A questo punto possiamo prendere in rassegna gli altri suoni dell’alfabeto sanscrito, assegnando ad ognuno il punto di articolazione pertinente, partendo dalle vocali.
Le vocali gutturali, cioè prodotte a livello del punto di articolazione situato all’altezza della gola, sono a e A (coi diacritici a e ā): si noti, pronunciandole ad alta voce, come appunto “vibri”, cioè sia messo in moto, il punto di articolazione della gola. Come accennato all’inizio di questo post, la a breve è l’unica vocale che, oltre a durare la metà della corrispondente lunga (cioè A in Harvard-Kyoto e ā in trascrizione coi diacritici), ha anche un timbro diverso, cioè deve essere pronunciata più chiusa della lunga. La cosa risulta molto importante per pronunciare correttamente il sanscrito, dato che esso abbonda di a brevi e lunghe, quindi la distinzione di tono fra le due lettere arricchisce di molto la trama fonetica della lingua: per esempio in un tema come Ananda (coi diacritici ānanda) si deve ben sentire che la prima a è lunga e aperta, mentre le altre due sono brevi e chiuse.
Seguendo l’ordine alfabetico, abbiamo poi le vocali palatali i e I (coi diacritici i e ī), uguali nella pronuncia e distinte solo dalla durata doppia della lunga rispetto alla breve. Pronunciandole ad alta voce, si noterà come la lingua si avvicini al punto di articolazione collocato sul palato duro, sul quale tutte le palatali vengono prodotte, facendolo come vibrare (o cantare).
Poi, nell’ordine alfabetico, vengono le vocali labiali u e U (coi diacritici u e ū): di nuovo pronunciandole ad alta voce, si noterà come esse si producano all’altezza delle labbra, che vibrano pronunciando questi due suoni (tornando alla distinzione fra suoni aspri e suoni dolci, si noti che tutte le vocali sono dolci; per le vocali sembra più adatto utilizzare il termine sonore, dato che le vocali, rispetto alle consonanti, sono decisamente più sonore appunto).
Dopo le vocali labiali, abbiamo le menzionate vocali retroflesse, r e R (coi diacritici ṛ e ṝ) per la pronuncia delle quali si veda quanto detto sopra.
Seguono le vocali retroflesse, due vocali dentali, e cioè lR e lRR in Harvard-Kyoto (coi diacritici ḷ e ḹ), che si pronunciano come normali l, ma appunto hanno valore di vocale (e la lunga ha durata doppia della breve, come al solito).
Dopo queste 10 vocali pure o di base, il sanscrito ha 4 vocali miste a livello di punto di articolazione, chiamate anche dittonghi, che sono sempre lunghe quanto a durata: due riconducibili al palato, e cioè e ed ai, e due riconducibili alle labbra, cioè o e au. Oltre ad essere tutte e quattro come detto lunghe (si badi bene che la e, e la o, brevi, in sanscrito non esistono!), notiamo come la e, e la o, siano tendenzialmente chiuse (o comunque più chiuse che aperte, diciamo corrispondenti come timbro alla e, e alla o, delle parole italiane vena e ponte) mentre per pronunciare le vocali ai e au (anche dette, in alcune grammatiche, dittonghi propri, laddove e, e o, sono dette dittonghi impropri) dobbiamo soffermarci più sull’elemento a che sugli elementi i e u: approssimativamente due terzi della durata complessiva della vocale (che essendo lunga deve durare il doppio di una breve) sull’elemento a, e un terzo della durata complessiva della vocale sugli elementi i e u. Come detto, la vocale ai è considerata una palatale, mentre la vocale au è considerata una labiale (questo si spiega col fatto che in fonetica il suono che succede è dominante rispetto al suono che precede; e la i è una palatale, mentre la u è una labiale).
Ognuna di queste 14 vocali può, oltre a presentarsi come tale, essere seguita da due tipi di suono nasale indistinto, chiamati in sanscrito rispettivamente anusvAra (coi diacritici anusvāra) e anunAsika (coi diacritici anunāsika), trascritti entrambi con M in Harvard-Kyoto (alcuni indicano .m per l’anunAsika) e rispettivamente con ṃ (l’anusvāra) e ṁ, emme con un punto sopra, (l’anunāsika) nella trascrizione coi diacritici; e, ognuna di queste 14 vocali, può essere seguita da un’aspirazione il più possibile muta, chiamata visarga e trascritta in Harvard-Kyoto H e, nel sistema di trascrizione coi diacritici, ḥ.
Per pronunciare correttamente le due nasalizzazioni delle vocali (assimilabili una all’altra: l’unica cosa che si può dire per distinguerle è che l’anunAsika è un po’ più prolungato dell’anusvAra) bisogna far terminare il suono vocalico nel naso. E’ molto importante, per pronunciarli correttamente, da un lato non alterare la vocale (cioè non bisogna fondere i due suoni, quello vocalico e quello nasale, in un suono solo, come avviene per esempio nel francese vent o maman) e d’altro lato ricordarsi di non chiudere le labbra pronunciando l’elemento nasale (che sennò diventerebbe una normale m), ma lasciarle aperte spingendo per così dire, o facendo salire, il suono nel naso, dove esso si spegne.
Per quanto riguarda il visarga, trascritto come detto in Harvard-Kyoto con H e in trascrizione con ḥ, esso è un elemento aspirato che di nuovo segue la vocale senza con questa fondersi: come detto tale elemento aspirato deve essere di timbro aspro e di durata piuttosto breve. Ma è importante che si senta quando si pronuncia, anche perché è un elemento importante di molte desinenze (fra cui di quella del nominativo singolare, cioè del soggetto della frase, di quasi tutti i temi in vocale: si pensi per esempio a devaH, agniH, vAyuH, tutti e tre nominativi singolari).
Taluni pronunciano il visarga con una specie di breve eco della vocale finale, mediato da un suono aspirato: è una pronuncia possibile solo quando il visarga è in posizione finale, e bisogna stare attenti a non produrre una sillaba in più, cioè a non pronunciare per esempio deva-ha, agni-hi, vAyu-hu. In effetti è piuttosto difficile pronunciare in questo modo il visarga e per questo lo sconsiglio vivamente, anche perché personalmente trovo molto più gradevole la pronuncia del visarga appunto come una leggera aspirazione sorda che segue la vocale. In ogni caso, va tenuto presente quanto detto, e cioè che se il visarga non è finale non si può adottare la pronuncia “a eco” pena produrre qualcosa di estremamente cacofonico (se si prova ad adottare tale pronuncia nelle, rare a dire il vero, parole che contengono un visarga all’interno della parola, come per esempio duHkha, dolore, che al visarga fa seguire l’occlusiva aspra aspirata kh, è facile capire perché tale pronuncia può essere adottata solo quando il visarga è il suono finale di una parola isolata, o di una frase, o di un verso).
Seguono, nell’alfabeto, le 25 occlusive e nasali, raggruppate in 5 gruppi, corrispondenti ai cinque punti di articolazione, ognuno formato, nell’ordine, dalle due occlusive aspre (la semplice e l’aspirata), dalle due occlusive dolci (la semplice e l’aspirata) e dalla nasale. L’ordine alfabetico dei punti di articolazione è: gola (che dà luogo alle gutturali), palato duro (che dà luogo alle palatali), palato molle (che dà luogo alle retroflesse), denti (che dà luogo alle dentali) e labbra (che dà luogo alle labiali).
In Harvard-Kyoto ecco le 25 occlusive e nasali in ordine alfabetico e distinte nei cinque diversi gruppi:
k, kh, g, gh, G
c, ch, j, jh, J
T, Th, D, Dh, N
t, th, d, dh, n
p, ph, b, bh, m
In trascrizione coi diacritici:
k, kh, g, gh, ṅ
c, ch, j, jh, ñ
ṭ, ṭh, ḍ, ḍh, ṇ
t, th, d, dh, n
p, ph, b, bh, m
Sulla pronuncia di queste occlusive e nasali, si è già detto abbastanza: basti qui ricordare il fatto che k è sempre corrispondente al suono espresso dalla c dell’italiano casa, g è sempre corrispondente al suono espresso dalla g dell’italiano gatto; e che c è sempre corrispondente al suono espresso dalla c dell’italiano ciao, e j è sempre corrispondente al suono espresso dalla g dell’italiano gioco (per la pronuncia delle nasali e delle aspirate, nonché per la distinzioni fra aspre e dolci, si veda quanto detto sopra).
Dopo le 25 occlusive e nasali abbiamo 8 consonanti non occlusive e in particolare: 4 semivocali, cioè la palatale y (da pronunciare sempre come nella parola yoga); la retroflessa r (da pronunciare, come tutte le retroflesse, sul palato molle con la lingua arcuata all’indietro, il che risulta in un suono specifico del sanscrito, notevolmente diverso dalla r italiana), la dentale l (equivalente alla l italiana); e la labiale v che si pronuncia come la v dell’italiano voce. Riguardo alla v, va detto che esiste anche una pronuncia, che io personalmente sconsiglio, simile alla w dell’inglese water. Tale pronuncia in ogni caso è possibile solo per le v non iniziali: per esempio vana, foresta, si deve pronunciare solo con una v tipo l’italiano voce; una parola invece come svarga, paradiso, ammette entrambe le pronunce (ma perché complicarsi la vita? Io consiglio di pronunciare tutte le v come l’italiano voce, siano esse iniziali di parola o meno, così non si corre il rischio di sbagliare).
Abbiamo poi le tre sibilanti, nell’ordine la palatale z (coi diacritici ś) del tema ziva, il famoso dio (coi diacritici śiva), la retroflessa S del tema viSa, veleno (coi diacritici viṣa) e la dentale s del tema rasa, gusto.
E’ molto importante nel pronunciare le sibilanti, ricordarsi che esse sono sempre e solo aspre (cioè per esempio la citata parola rasa, non va pronunciata con la s dell’italiano rosa, ma con quella dell’italiano sole).
L’ultima lettera dell’alfabeto è l’aspirata h, una gutturale sempre dolce.
Concludo questo lunghissimo, e mi rendo conto noiosissimo, post, che spero però sia utile a chiarire definitivamente come si pronuncia il sanscrito, con le regole per la corretta pronuncia delle parole.
Prima di pronunciare le parole, mi raccomando però di imparare a pronunciare ogni singolo suono del sanscrito, praticando l’alfabeto nel suo ordine, e prendendo bene coscienza, per ogni lettera, di quale sia il punto di articolazione coinvolto e di che tipo di movimento nel “sistema” fiato-gola-lingua-palato duro-palato molle-denti-labbra (azionato dalla mente), cioè di che tipo di suono, ogni lettera comporti.
A tal proposito, aggiungo che le lettere del sanscrito si distinguono in:
– 10 vocali di base, quelle cioè che coinvolgono ogni punto di articolazione “suonato” “libero” o “puro” (si tratta delle prime 10 lettere dell’alfabeto cioè, in Harvard-Kyoto: a, A, i, I, u, U, R, RR, lR, LRR);
– 4 vocali derivate, tutte lunghe (mi raccomando!) e, dal punto di vista di punto di articolazione, “miste” (cioè, in Harvard-Kyoto e, ai, o, au)
– 3 modificatori vocalici, in Harvard-Kyoto M, .m, H (N.B. a livello di ordine alfabetico tali suoni occorrono dopo ogni vocale, cosicché il vero ordine alfabetico delle vocali è a, aM, a.m, aH; A, AM, A.m, AH; i, iM, i.m, iH; I, IM, I.m, IH; ecc.)
– 25 occlusive e nasali, in Harvard-Kyoto k, kh, g, gh, N (gutturali); c, ch, j, jh, J (palatali); T, Th, D, Dh, N (retroflesse); t, th, d, dh, n (dentali); p, ph, b, bh, m (labiali)
– 4 semivocali, in Harvard-Kyoto y, r, l, v (rispettivamente, la semivocale palatale, quella retroflessa, quella dentale e quella labiale; le semivocali sono tutte consonanti non-occlusive e sono tutte dolci; sono dette semivocali poiché simili, nel suono, rispettivamente alle vocali di base i, R, lR, u)
– 3 sibilanti, in Harvard-Kyoto z, S, s (rispettivamente, la sibilante palatale, quella retroflessa e quella dentale; le sibilanti sono tutte consonanti non-occlusive e sono tutte aspre)
– 1 aspirata, in Harvard-Kyoto h (gutturale, non-occlusiva, dolce)
Veniamo infine alla pronuncia delle parole.
Come detto, ogni parola in sanscrito ha un accento tonico, cioè una sillaba su cui cade l’accento (come in italiano).
Si definisce sillaba in sanscrito la parte di parola contenente una vocale (con eventualmente un modificatore vocalico), esclusa la consonante o le consonanti successive.
Per esempio le parole, trascritte in Harvard-Kyoto, Ananda, karman, chAyA, duHkha, prANa, saMsAra, e sarasvatI sono rispettivamente composte dalle sillabe (isolate da un trattino) A-na-nda, ka-rman, chA-yA, duH-kha, prA-Na, saM-sA-ra, e sa-ra-sva-tI.
Come viene detto di seguito, determinante per capire dove cade l’accento tonico di ogni parola, è definire in cosa consiste una sillaba breve e in cosa consiste una sillaba lunga:
-è breve la sillaba che contiene una vocale breve non seguita da due o più consonanti, o la sillaba contenente una vocale breve non seguita da un modificatore vocalico (al quale segue sempre una o più consonanti).
-è lunga la sillaba che contiene una vocale lunga o una vocale breve seguita da due o più consonanti (il modificatore vocalico conta in questo senso come una consonante).
Per esempio la parola (che scrivo divisa in sillabe) a-ti-thiH è formata da tre sillabe brevi; la parola ci-ki-tsA è formata nell’ordine da una sillaba breve e due sillabe lunghe; la parola ta-maH è formata da due sillabe brevi; la parola saM-nyA-sI è formata da tre sillabe lunghe; la parola kSe-tram è formata nell’ordine da una sillaba lunga e una sillaba breve; ecc.
Per definire su quale sillaba cade l’accento tonico, valgono le seguenti regole:
– l’accento tonico non cade mai sull’ultima sillaba (non esistono cioè parole tronche)
– l’accento tonico cade sulla penultima sillaba se essa è lunga; per esempio cade sulla penultima sillaba nelle seguenti parole: saMsAraH, vijJAnam, prabhAvaH, Ananda, ecc.
– l’accento tonico cade sulla terzultima sillaba se essa è lunga e la penultima è breve; per esempio cade sulla terzultima sillaba nelle seguenti parole: karmendriyam, sarasvatI, prabodhanam, maithunam, ecc.
– l’accento tonico cade sulla quartultima sillaba se sia le terzultima che la penultima sono brevi; per esempio cade sulla quartultima nelle seguenti parole: upaniSat, taralatA, kapaTatA, sundaratA, ecc.
Oltre all’accento tonico, per ottenere una corretta pronuncia del sanscrito, bisogna rafforzare, fino quasi a raddoppiarla, ogni consonante iniziale di un congiunto consonantico, inclusa la sequenza modificatore vocalico+consonante (cioè la prima consonante di una sequenza di due o più consonanti di seguito, o il modificatore vocalico, più spesso un anusvAra, in una sequenza modificatore vocalico+consonante).
Per esempio le parole, sarasvatI, krodhaH, cikitsA, saMsAraH, kaJcukIyaH, saMyogaH, ecc. dovranno essere pronunciate con una speciale enfasi sulla consonante o sul modificatore vocalico che si trova unito direttamente ad una consonante. Quindi riscrivendo tali parole con la consonante, o il modificatore vocalico, oggetti dell’enfasi ripetuti tra parentesi (un modo di scrivere che adotto qui solo per spiegare il fenomeno descritto, ma che in nessun modo deve essere considerato una grafia possibile) avremo saras(s)vatI, k(k)rodhaH, cikit(t)sA, saM(M)sAraH, kaJ(J)cukIyaH, saM(M)yogaH. [ricordo che J esprime in Harvard-Kyoto la nasale palatale ñ].
E’ importante inoltre ricordare che ogni vocale breve deve essere pronunciata breve, e ogni vocale lunga deve essere pronunciata lunga: in altre parole, possiamo dire che si deve “volare” sulle vocali brevi e soffermarsi sulle vocali lunghe, incluse quelle finali.
Ricordo infine che la a breve va pronunciata più chiusa della A lunga.
A questo punto, spero, la pronuncia di tutte le lettere dell’alfabeto sanscrito e delle parole non dovrebbe più avere alcun segreto: buona pronuncia a tutti dunque!

2 pensieri su “Pronunciare il sanscrito: l’alfabeto, la trascrizione (Harvard-Kyoto e coi diacritici) e la pronuncia delle parole

    1. Giulio Geymonat Autore articolo

      Sono molto lieto che abbia trovato interessante questo post, e la ringrazio di avermelo scritto.
      Mi lasci aggiungere che il senso ultimo del post è: per imparare a pronunciare correttamente il sanscrito è necessaria (e, in genere, sufficiente) una piena presa di coscienza della complessità e precisione che l’emissione dei fonemi (in qualunque lingua) comporta, allo scopo di controllare tale emissione al fine di pronunciare il sanscrito. E questo si può fare appunto solo portando alla luce tutti i movimenti e gli “sforzi” (penso per esempio alle occlusive aspirate, o alla differenza fra le occlusive aspre e quelle sonore) che avvengono, solitamente senza che nemmeno uno se ne accorga, nel “sistema” fiato-gola-cavo orale-labbra-naso. Solo così si può poi pronunciare correttamente il sanscrito, e per altro apprezzare veramente la trama fonetica presente nella poesia, nei mantra e anche nella prosa. Non si deve, in altre parole, imitare la pronuncia di chissà chi sperando che sia corretta, ma “trovarla” dentro di sé per impadronirsene definitivamente. E, tra l’altro, una volta che questo lavoro è stato fatto col sanscrito, può essere fatto con qualunque lingua (con la differenza ovviamente che le lingue naturali hanno sempre molte pronuncie corrette, per cui la faccenda è meno cristallina che nel caso del sanscrito: ma almeno si possono evitare le pronuncie palesemente scorrette).

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